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Combattere la cultura del sospetto è la vera manovra espansiva che serve all'Italia

Claudio Cerasa

Non fidarsi del prossimo diventa una regola sociale che alimenta la paura e crea diffidenza anche nei confronti della scienza e degli esperti. Vaccini contro il totalitarismo giudiziario. Un libro

Filippo Sgubbi insegna Diritto penale all’Università di Bologna, è uno dei più autorevoli esperti di criminalità economica d’Italia e tra qualche giorno pubblicherà con il Mulino un saggio che il presidente della Repubblica farebbe bene a regalare a tutti gli esponenti del governo rossogiallo – oltre che a tutti i direttori d’Italia. Il saggio in questione si presenta con un titolo apparentemente grigio – “Il diritto penale totale” – dietro al quale si nasconde però uno dei più taglienti j’accuse rivolti contro tutti coloro che hanno trasformato il circo mediatico-giudiziario in una fogna all’interno della quale si viene puniti nel disprezzo della legge, della verità e della colpa. La tesi di Filippo Sgubbi è che l’illecito penale “fluttua nella vita sociale in balìa di forze eterogenee” e sulla base di questo principio ha smesso di essere uno scudo a difesa della legge e ha cominciato a essere uno strumento totalitario il cui scopo ultimo è quello di difendere una certa idea di etica pubblica. Se il diritto penale diventa uno strumento per affermare una certa idea di etica pubblica si capisce facilmente che le vestali della giustizia, i magistrati e i giudici, perdono la loro tipizzazione classica per assumere un profilo diverso sempre meno tecnico e sempre più politico. Sgubbi dice giustamente che nell’Italia di oggi definire “politico” un giudice non significa qualificarlo come se fosse un giudice “politicizzato”. 

 

 

Significa qualcosa di più e qualcosa di più sofisticato. “Il giudice politico – nota Tullio Padovani nella nota introduttiva al libro – corrisponde alle sue funzioni proprio prendendo decisioni politiche che la sua autonomia consente in un contesto in cui è a lui precisamente affidato il compito di assumerle, sotto l’usbergo della garanzia di ruolo, con il diritto che non è più il punto di partenza, ma è solo quello di arrivo”. E sulla base di questo principio, il sistema permette di “legittimare provvedimenti adottati sì dalla magistratura, ma aventi natura di amministrazione e di governo e ispirati all’opportunità politica” con un processo penale ideato non più per accertare un fatto ma per creare un fatto. Le nozioni forse un po’ tecniche di Sgubbi sono fondamentali per capire la ragione per cui l’Italia di oggi – e non solo l’Italia – ha scelto di non considerare più come un fenomeno da combattere la persistenza di un diritto penale “incapace di rendere distinguibili le luci dalle ombre” e strutturato in modo tale da rendere possibile il dilagare della cultura del sospetto, “con le presunzioni che sostituiscono le verità e con le narrazioni che sostituiscono le interpretazioni”.

  

 

Sgubbi nota che grazie alla nuova interpretazione molto elastica e molto malevola del diritto penale il cittadino è sospettato a priori ed è trattato come un suddito in nome di “una utopia securitaria, nutrita dal sospetto, che induce l’autorità pubblica a cercare di controllare ogni momento della vita delle persone”. Alimentare il sospetto, dice Sgubbi, significa alimentare la sfiducia e significa giocare con la paura. E quando una società è permeata dalla cultura del sospetto non fidarsi del prossimo diventa inevitabilmente una regola sociale che crea diffidenza nei confronti non solo del prossimo ma anche della scienza, degli esperti e di tutti coloro che possono essere vagamente definiti come poteri forti. Sintesi dell’autore: “L’affermazione dell’esistenza di un complotto dietro qualsiasi accadimento comporta un’inversione dell’onere della prova che è comune alla logica del sospetto: chi sostiene l’esistenza di un complotto ribalta sull’interlocutore il compito di dimostrare l’inesistenza del complotto stesso e di spiegare la realtà con una diversa interpretazione causale”.

 

Una società che accetta il sospetto come regola sociale considera normale che la regola del sospetto diventi un motore dell’attività del legislatore (è il caso di ricordare quante misure di prevenzione personale e patrimoniale sono fondate sul sospetto e su meri indizi, quante leggi rendano possibili misure di prevenzione personale e cautelari anche solo sulla base di un sospetto e quanto la cultura del sospetto abbia contribuito a rendere il processo svolto sui media più importante rispetto a quello svolto in tribunale). E se tutto questo accade, accade perché nella collettività e nell’ambiente politico si è affermata la convinzione che nel diritto penale si possa trovare il rimedio giuridico a ogni ingiustizia e a ogni male sociale.

 

  

Perché, dice Sgubbi, la morale pubblica si è ormai identificata con il perimetro della incriminazione penale (“Ci si attende molto di più da una sentenza che non da una legge”). Perché il diritto non è più destinato a stabilire la giustizia, bensì ad affermare la vittoria dell’uno sull’altro. E perché il processo punta a individuare, prima ancora delle cause, una colpa: la colpa dell’altro. Vale quando si parla di diritto penale, di misure di restrizione, di abuso di misure cautelari, di incapacità di capire la gravità di trattare ogni fenomeno criminale come se fosse un fenomeno mafioso ma, dice Sgubbi, vale anche per altre questioni. Avete presente il MeToo? Bene. “Il movimento #metoo – nota Sgubbi – ha esteso a dismisura nozioni giuridiche consolidate come il concetto di molestia, ha condizionato di fatto e in modo indebito varie forme di rapporti intersoggettivi e di ruolo sociale, ha ribaltato inevitabilmente il canone dell’onere della prova. Anzi, reclama l’irrilevanza delle prove e perfino dell’accertamento giudiziale di un fatto, con la sfrontatezza di chi ritiene che sia sufficiente soltanto la parola della sedicente vittima per scatenare effetti sanzionatori sul preteso colpevole. La salvezza dell’incolpato è impossibile: insignificante fornire la prova contraria e, di fronte a questo nuovo Sant’Officio, anche l’abiura e il pentimento sono privi di effetti”. Combattere contro la cultura del sospetto è il primo passo per combattere contro tutti coloro che cercano ogni giorno di sputare sullo stato di diritto. L’Italia si è occupata a lungo dell’emergenza dello spread finanziario. Sarebbe il caso che il governo si occupasse di uno spread persino più importante, che potrebbe dare una spinta al paese più di qualsiasi manovra espansiva: quello che ci porta ogni giorno a far fare al nostro paese un passo sempre più lontano dal rispetto della Costituzione e sempre più vicino al baratro del totalitarismo giudiziario.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.