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Se nessuno si occupa di occupazione

Giuseppe Croce e Michele Faioli*

Il “lavorare meno lavorare tutti” di Tarantelli preso contromano da Tridico. Voler redistribuire i posti anziché aumentarli vuol dire rassegnarsi all’idea che l’occupazione in Italia non può crescere di più

Nel dibattito politico delle ultime settimane si è riaffacciata un’idea che da decenni è oggetto discussione in Italia e in altri paesi: ridurre l’orario di lavoro allo scopo di aumentare l’occupazione. Si conosce la distinzione che esiste tra la riduzione dell’orario di lavoro di tipo strutturale, di cui qui ci occuperemo principalmente, e la riduzione dell’orario di lavoro che viene connessa a fenomeni di crisi settoriale o aziendale. La riduzione per crisi aziendale porta con sé alcuni elementi: l’accesso a schemi di sostegno al reddito (prestazioni collegate a cassa integrazione o fondi bilaterali di solidarietà), l’intervento della contrattazione aziendale gestionale che incide sulle posizioni professionali e sul tempo di lavoro e, in alcuni casi, sulla formazione o re-skilling professionale, in altri, persino sui licenziamenti collettivi. La riduzione di orario per crisi esiste in tutti paesi europei (si pensi, ad esempio, al Kurzarbeit tedesco).

  

 

La proposta (recentemente ripresa anche dal commissario Inps, Pasquale Tridico), che qui trattiamo è, invece, riferita alla riduzione dell’orario di tipo strutturale. Tale riduzione dell’orario e il (potenziale) aumento dell’occupazione sono certamente dei “beni” in sé che possono migliorare il benessere dei lavoratori e delle loro famiglie. La riduzione del tempo di lavoro di tipo strutturale può comportare benefici importanti in funzione delle molteplici forme che potrebbe assumere (al di là della semplice riduzione delle ore giornaliere, ad esempio aumento dei riposi settimanali o delle ferie nel corso dell’anno, o di periodi sabbatici, di congedi parentali o per la cura di familiari non autosufficienti, o per la formazione).

 

Ma tutto ciò non basta per comprendere bene di cosa stiamo trattando. Si deve tenere in considerazione il fatto che durante una fase di crescita economica, soprattutto se trainata da aumenti di produttività, la riduzione dell’orario di tipo strutturale serve a far arrivare ai lavoratori i frutti della crescita, non solo sotto forma di maggior reddito, ma anche di minore tempo di lavoro, e a dare una spinta aggiuntiva all’occupazione. Se osserviamo il trend storico di lungo periodo, dalla fine dell’Ottocento e per gran parte del Novecento i redditi da lavoro sono cresciuti di pari passo con la riduzione delle ore di lavoro. Al contrario, in fase di stagnazione, la riduzione di orario di tipo strutturale rappresenta una mera redistribuzione delle ore di lavoro totali, da realizzare assumendo che tale monte-ore sia una quantità data mentre, secondo buona parte degli economisti, potrebbe ridursi proprio nel momento in cui viene redistribuita se la riduzione provoca un aumento dei costi per le imprese.

  

A fronte dei benefici potenziali di questa politica, per poterne valutare appieno significato e effetti si pongono due questioni decisive: innanzitutto, chi decide se e come ridurre l’orario, e, poi, chi ne paga i costi.

 

A questo riguardo, la ripresa del tema della riduzione dell’orario ci porta indietro al dibattito degli anni Ottanta e alla proposta più autorevole allora avanzata, quella formulata da Ezio Tarantelli nel 1984. In quella proposta, la riduzione di orario ha tre caratteristiche significative: è su richiesta del lavoratore, è inserita nella contrattazione collettiva aziendale, non avviene a parità di salario. Primo: se si vuole aumentare il benessere dei lavoratori, tenendo conto delle loro esigenze, la riduzione non può che essere a richiesta individuale. In questo senso, essa rappresenta un aumento dei margini di scelta e una flessibilità “buona” per ciascun lavoratore. E’, con altre parole, uno spazio di autonomia individuale che si innesta, senza confliggere, in un sistema produttivo-aziendale già predisposto per accogliere tale decisione. Secondo: la decisione individuale – nella visione di Tarantelli – va regolata necessariamente dalla contrattazione collettiva aziendale. E’ in quella sede, nel negoziato tra datore di lavoro e rappresentanze sindacali, che è possibile tener conto adeguatamente dei costi e dei benefici, individuali e collettivi, non sempre omogenei perché le imprese sono diverse l’una dall’altra, In questo modo, mediante il contratto aziendale, si gestisce l’effetto negativo della riduzione degli orari. Ridurre gli orari di lavoro, infatti, può comportare dei costi a causa di una non sempre facile sostituibilità tra lavoratori o dell’esistenza di costi fissi organizzativi o, ancora, della necessità di formare lavoratori neo-assunti. E’ evidente che, secondo Ezio Tarantelli, la sostenibilità dei costi rappresenta un vincolo di cui tenere conto e da gestire mediante relazioni sindacali sane e mature. Il terzo elemento è coerente con questa preoccupazione. Tarantelli esclude che la riduzione di orario di lavoro possa essere attuata “a parità di salario”. Il salario mensile va ridotto in proporzione al taglio del tempo di lavoro. Ciò non toglie che eventuali incrementi di produttività oraria possano incrementare il salario orario e compensare (o addirittura più che compensare) il taglio delle ore, consentendo, di fatto, di mantenere (o aumentare) il livello del salario mensile. In questo senso è il lavoratore che “paga” con una minore crescita salariale il taglio di ore di lavoro. In caso contrario, il costo della riduzione di orario ricadrebbe sulle imprese e gli effetti sull’occupazione diventerebbero assai incerti e, molto probabilmente, negativi.

 

Seguendo questi criteri, ci si chiede quanto sia realistica e opportuna oggi la proposta di riduzione di tipo strutturale dell’orario di lavoro. Le nuove tecnologie e la profonda trasformazione in corso dell’organizzazione del lavoro pongono il tema della flessibilità interna, cioè quella dei tempi di lavoro e della relativa riduzione, in termini assai diversi da quelli nei quali si poneva nel rigido modello fordista del passato. La tecnologia 4.0 incide sul lavoro in modo profondo e chiede alla contrattazione collettiva (non alla legge) di mediare tra situazioni diverse e interessi spesso confliggenti. La contrattazione collettiva, in questo senso, può intervenire più efficacemente in materia di tempo di lavoro, classificazione del personale, mobilità, mansioni, polivalenza, retribuzione e premialità. Tale contrattazione, già da oggi, anche al fine di restare in linea con altre esperienze europee, necessiterebbe di una legge promozionale tesa a favorire un più efficace coordinamento tra contratto nazionale e contratto decentrato, una definizione più precisa dell’esclusività della rappresentanza dei lavoratori in azienda, il rafforzamento dell’efficacia contrattuale.

 

Quella proposta di riduzione strutturale pone, dunque, problemi non facilmente superabili. Dato che la nostra produttività oraria non cresce da un paio di decenni e, pertanto, non vi sono le condizioni più favorevoli per una riduzione dell’orario di lavoro finanziata dai guadagni di produttività, si verrebbe a determinare un taglio dei salari (oramai, dato il recente Def, non più rimediabile con interventi di bilancio pubblico). Nella nostra lunga fase di stagnazione salariale sembra poco verosimile che una parte rilevante della forza lavoro possa accettare ulteriori tagli. Del resto, dopo dieci anni di crisi, l’economia italiana ha recuperato i livelli di occupazione del 2008 ma non ancora il volume di ore di lavoro, che sono ancora 5 punti percentuali sotto il livello pre-crisi. Nel corso di tale periodo i part-time (involontari) sono aumentati in Italia di oltre 1,4 milioni. In pratica, la crisi ha già ampiamente realizzato una “perversa” riduzione di orario, con redditi che decrescono.

 

Se è vero il quadro che abbiamo rappresentato, si pensa davvero che sia questo il momento per andare a un’ulteriore riduzione di orario? E, in termini più strutturali, siamo sicuri che in Italia, con un tasso di occupazione dieci punti al di sotto di quello del resto d’Europa, ci si debba preoccupare di redistribuire i posti di lavoro che ci sono piuttosto che aumentarne il volume complessivo? E’ questa la risposta ai nostri problemi occupazionali? In particolare, puntiamo alla riduzione di orario per risolvere la sottoccupazione del Mezzogiorno? In altre parole, ci si deve rassegnare a credere che l’economia italiana abbia esaurito i margini di crescita dell’occupazione?

 

* Giuseppe Croce, Sapienza Università di Roma, Michele Faioli, Università Roma Tor Vergata