Emmanuel Macron (foto LaPresse)

Macron ci prova: lavorare di più per sostenere le pensioni

Mauro Zanon

Con il “travailler plus” addio alle 35 ore o addio alle feste

Parigi. Ancora le 35 ore, sempre loro, totem della gauche francese ed epicentro di tutte le battaglie politiche e ideologiche in tema di lavoro. Domani, l’inquilino dell’Eliseo, Emmanuel Macron annuncerà le misure decise dal governo dopo i due mesi di Grand débat national, la maxi “terapia di gruppo”, come l’hanno definita alcuni psicanalisti, che ha coinvolto il presidente in prima persona e la Francia periferica. E in cima alla lista delle proposte di riforma c’è l’allungamento della durata legale dell’orario di lavoro, che potrebbe tradursi in un abbandono delle 35 ore o comunque in una sua forte messa in discussione.

 

“La necessità di lavorare di più” per finanziare il taglio delle tasse e adeguarsi all’allungamento dell’aspettativa di vita era uno dei messaggi che Macron avrebbe già voluto trasmettere alla nazione durante il suo discorso televisivo del 16 aprile, poi rimandato a causa dell’incendio di Notre-Dame. “Questo tema è troppo importante per spingermi a commentare un pezzo di frase che non è mai stato pronunciato”, ha tagliato corto Pascal Canfin, ex direttore di Wwf Francia e attuale numero due nella lista della République en marche (Lrem) per le elezioni europee. Ma nel testo del discorso è scritto in maniera inequivocabile ciò che desidera fare l’attuale presidente e nell’ultima settimana l’idea del “travailler plus”, formula che ricorda il Nicolas Sarkozy liberale, si è fatta largo trovando sponde importanti. “Mi sembra evidente che bisognerà lavorare di più per poter sostenere meglio i nostri anziani”, ha dichiarato lunedì su Lci l’attuale capolista Lrem alle europee, Nathalie Loiseau. Tuttavia, l’ex ministro per gli Affari europei non ha precisato se il “travailler plus” in salsa macronista sarà sinonimo di un addio alle 35 ore, se prenderà la forma di un aumento degli anni di contribuiti necessari per accedere alla pensione d’anzianità o se sarà garantito da un’altra “giornata di solidarietà” – un giorno di lavoro supplementare non remunerato – sul modello del lunedì di Pentecoste (nel 2004, Jean-Pierre Raffarin la instaurò per finanziare la prevenzione dei rischi legati alla canicola per le persone anziane, dopo una grande ondata di caldo afoso che provocò 15mila vittime nell’estate 2003).

 

Di certo, ha sottolineato la Loiseau, “non si può continuare a lasciare le cose così come sono”. “Più che mettere fine alle 35 ore, la migliore idea per ‘lavorare di più’ e generare ricchezza è la cancellazione di uno altro giorno festivo sulla scia di quanto fatto da Raffarin”, dice al Foglio l’economista liberale Jean-Marc Daniel. E aggiunge: “Cito San Paolo nella Lettera ai Tessalonicesi: ‘Chi non lavora, non vive’. Il lavoro non deve essere un strumento per pagare le tasse, ma un mezzo per produrre ricchezza”. Come riportato da France 2, la misura dell’ex premier gollista, nel 2018, ha garantito tre miliardi di euro alle casse dello stato francese. La cancellazione di un altro giorno festivo potrebbe quindi aggiungerne altri tre: non certo quisquilie. Detto questo, Daniel non esclude che Macron possa mettere mano al grande feticcio della sinistra giacobina. “Da ministro dell’Economia, disse che le 35 ore erano una pessima idea definendo ‘un errore’ pensare che lavorando meno si è più ricchi. Ci sono sempre più persone che chiedono che la durata dell’orario di lavoro sia totalmente decentralizzata a livello dell’impresa”, spiega al Foglio Daniel.

 

Per un deputato Lrem, che ha preferito esprimersi in forma anonima a Libération, l’abbandono delle 35 ore, “come segnale politico, sarebbe potente e forse più popolare rispetto alla soppressione di un giorno festivo”. Ma seppellire definitivamente le 35 ore resta un calcolo politico molto rischioso per Macron: in primis, perché durante la campagna elettorale da candidato di En Marche! aveva promesso di non toccarle, in secondo luogo, come sostengono alcuni osservatori, perché passare alle 37 ore o tornare alle 39 (la durata legale prima della riforma della socialista Martine Aubry nel 1998) potrebbe essere svantaggioso per i lavoratori che beneficiano attualmente delle defiscalizzazioni degli straordinari. Su questo secondo punto, è d’accordo anche Matignon, stando a quanto riferito dall’entourage del primo ministro, Edouard Philippe, a Bfm.tv. “Mettere in discussione la durata legale settimanale comporterebbe un passo indietro sulla defiscalizzazione degli straordinari che i francesi plebiscitano”, ha dichiarato un consigliere del premier – la defiscalizzazione delle “heures sup’”, introdotta da Sarkozy, prima di essere cancellata da Hollande, è stata reintrodotta da Macron a dicembre nel pacchetto di misure per rispondere alla crisi dei gilet gialli. Matignon è più favorevole alla riduzione delle giornate festive e dei cosiddetti Rtt (Reduction du temps de travail), i giorni supplementari di “vacanza” che si aggiungono al già corposo malloppo di festività e di ferie. A Bercy, invece, sede del ministero dell’Economia e delle Finanze, fanno notare che i francesi lavorano meno rispetto ai loro vicini europei: 3 per cento in meno dei tedeschi, 7 dei britannici, secondo l’Insee.

 

E se si allarga la visuale sull’intero anno, lo scarto è ancora più profondo, perché il numero di giorni di ferie è molto più sostanzioso rispetto agli altri paesi della zona euro: 32 rispetto a una media europea di 25. “I funzionari pubblici francesi, rispetto a quelli tedeschi, lavorano duecento ore in meno all’anno”, dice al Foglio Agnès Verdier-Molinié, direttrice del think tank Fondation iFrap, prima di aggiungere: “Macron deve iniziare a cambiare questi numeri. La sua riforma del Lavoro e le sue ordonnances sono state insufficienti. Deve concentrarsi sulla durata annuale dell’orario di lavoro e non su quella settimanale”. Ma i francesi saranno pronti ad allinearsi? Secondo un sondaggio Ifop pubblicato dal Journal du dimanche, a quanto pare, non ancora: il 54 per cento è contrario all’allungamento della durata dell’orario di lavoro, e il 59 ha detto no all’abbandono delle 35 ore.

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