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Perché sul salario minimo i Cinque stelle sbagliano

Cesare Damiano

L’omogeneizzazione sul piano salariale non è una buona idea e rischia di trasformarsi in un metodo per livellare al basso le retribuzioni

La proposta di legge sul salario minimo potrebbe incontrare qualche difficoltà e rallentamento nel cammino parlamentare. Un intoppo per i 5 Stelle che, annunciando il provvedimento avevano accreditato l’idea di portare nel mondo del “lavoro povero” un qualcosa di “uguale per tutti” in grado di retribuire meglio i lavoratori. Peccato che l’omogeneizzazione, sul piano salariale (gli ormai famosi 9 euro l’ora) non sia affatto una buona idea, ma rischi, per converso, di trasformarsi in un metodo per livellare al basso le retribuzioni dando l’occasione alle aziende di disconoscere i contratti nazionali.

 

Non ci stanno – lo ha ben spiegato la Cisl nel convegno tenuta a Roma il 16 aprile – i sindacati confederali e, bisogna dire, con delle più che buone ragioni. A partire da un dato: l’85 per cento dei lavoratori dipendenti è coperto da un contratto collettivo nazionale di lavoro. Dicono i sindacati: il problema, semmai, è coprire il restante 15 per cento con lo scudo e le garanzie della contrattazione collettiva. E questa è un’affermazione non solo logica, ma che scaturisce dalla storia della rappresentanza e della contrattazione propria del nostro Paese che, ricordiamolo, è definita nella Costituzione repubblicana.

 

L’articolo 36 della Carta afferma, tra l’altro, che “il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro”. Ma è l’articolo 39, nel suo ultimo capoverso, a stabilire che è la contrattazione collettiva il luogo della definizione dei rapporti di lavoro: “I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”. Ancora, l’articolo 2099 del Codice Civile, prescrive che la retribuzione sia composta di più elementi: la paga base, l’indennità di contingenza e le retribuzioni accessorie che si sommano a quella di base.

 

E’ la contrattazione tra le parti – che siano dotate di effettiva rappresentatività – lo strumento attraverso il quale vengono definiti i vari aspetti dei rapporti di lavoro. E tra questi, i cosiddetti minimi tabellari che stabiliscono – contratto per contratto, livello di qualifica per livello di qualifica – le retribuzioni minime. Ovvero, retribuzioni al di sotto delle quali non si può comunque andare, ma che possono essere incrementate dalla contrattazione individuale o da quella collettiva esercitata a livello nazionale, territoriale, aziendale o di gruppo. Dunque, la contrattazione collettiva, a partire dal livello nazionale, ha permesso alle parti di stabilire, oltre a tanti altri aspetti del rapporto di lavoro, livelli salariali aderenti alla realtà delle singole categorie. Per questo è rischiosa una definizione di legge di un salario minimo che sia uguale per tutti che cancellerebbe la complessità del mondo della produzione.

 

Questa preoccupazione è stata recepita nella proposta di legge presentata, nei giorni scorsi, dai membri Pd della Commissione Lavoro del Senato. La proposta conferisce valore di legge ai trattamenti minimi tabellari definiti dai contratti nazionali di ciascuna categoria, per ogni qualifica prevista dall’inquadramento professionale. Un salario di legge, parallelo, viene definito, in via residuale, solo per chi non ha ancora un contratto di lavoro, istituendo presso il Cnel una apposita Commissione paritetica per la rappresentanza e la contrattazione collettiva che avrà il compito di stabilirne l’importo. E’ previsto che la Commissione abbia anche il compito di definire i criteri di misurazione e certificazione della rappresentatività delle associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro. In controtendenza rispetto a un’epoca in cui tanti hanno cercato di delegittimare i corpi intermedi, la certificazione del valore reale della rappresentanza sarebbe un ragionevole ritorno al disegno costituzionale e porterebbe con sé una prospettiva di consolidamento e allargamento della contrattazione collettiva nazionale, a partire da coloro che ancora non sono da essa coperti. Vedremo se questo governo vorrà e sarà in grado di sostenere il confronto con la realtà.

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