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L'incubo del governo Davigo

Claudio Cerasa

Cosa succede quando la repubblica giudiziaria si salda con un pezzo di paese che non si ribella alla dittatura delle procure? La dottrina dell’ex presidente dell’Anm è l’intersezione perfetta dei populismi con ambizioni di governo (altro che Di Maio)

Dimenticate l’incredibile faccia di bronzo di Luigi Di Maio. Dimenticate la ridicola prova di governo di Virginia Raggi. Dimenticate la maschera fintamente rassicurante di Chiara Appendino. Dimenticate i dolci vaffanculo di Beppe Grillo. Dimenticate quello che vedete ogni giorno quando provate a immaginare anche solo per un istante cosa vorrebbe dire essere governati dal cialtronismo grillino e fissate per un attimo nei vostri occhi il vero volto da prendere in considerazione per capire in modo chiaro e diretto l’essenza pura dell’Italia populista. Il volto giusto da cui partire per capire qual è il punto di intersezione perfetto tra tutte le forze anti sistema che si agitano e sbraitano nella pancia del nostro paese è quello a cui più o meno ogni settimana La7 di Urbano Cairo (Giovanni Floris, ma non solo) concede un importante diritto di tribuna: Piercamillo Davigo.

 

Martedì sera, l’ex presidente dell’Anm era ancora una volta ospite da Giovanni Floris a “DiMartedì” (da Floris il martedì sera non c’è più Maurizio Crozza ma in compenso più o meno ogni martedì c’è Piercamillo Davigo) e nel corso della sua sobria e come sempre misurata intervista il conduttore unico delle coscienze populiste italiane (Davigo, non Floris) ha lanciato una bomba accolta in studio con un sorriso dal conduttore de La7 (Floris, non Davigo) e con un ululato di soddisfazione dal pubblico in studio: “L’imputato che non rifiuta la prescrizione è un imputato che deve vergognarsi”.

 

 

Piercamillo Davigo, come si sa, è un teorico puro e sincero della necessità che un paese come l’Italia sia contaminato il più possibile dal vaccino del giustizialismo e da tempo – in perfetta sintonia con Beppe Grillo che lo stima, lo adora, la coccola, lo seduce e lo sogna al centro di un governo grillino che non ci sarà ma che se ci sarà non potrà prescindere dalla figura di Davigo – consiglia ai suoi follower di considerare in modo più o meno diretto il politico come un furfante non ancora scoperto. E dunque, abituati come siamo ormai alla dottrina Davigo, apparentemente le frasi consegnate a Giovanni Floris martedì sera potrebbero apparire solo come l’ultimo tassello di un disegno culturale in cui ogni imputato è sempre un potenziale colpevole e non un potenziale innocente come prevede l’articolo 27 della Costituzione.

 

La ragione per cui sui giornali di oggi non troverete commenti critici rispetto alla frase di Davigo è uno dei drammi di un paese come l’Italia che sembra essersi ormai rassegnato all’idea che un magistrato – pagato dallo stato per esercitare la sua funzione in modo terzo, indipendente e non militante – possa tranquillamente sostenere in prima serata, tra gli ululati del pubblico e i sorrisi del conduttore, che un processo che si conclude con una prescrizione sia responsabilità di un indagato, che dunque va considerato un farabutto fino a prova contraria, e non invece di un sistema giudiziario spesso incapace di svolgere le indagini in modo efficace e spesso incapace di rispettare un principio previsto dalla Costituzione all’articolo 111 e garantito anche dalla Convenzione dei diritti dell’uomo (legge 4 agosto 1955): il principio della durata ragionevole del processo.

 

Il mondo ribaltato che scazzotta con lo stato di diritto, di cui Davigo è fiero portavoce, non è però un mondo che si trova fuori dal mondo ma è una realtà che una buona parte del nostro paese considera ormai come un fatto semplicemente da accettare – probabilmente il fatto che ci sia un giudice di Cassazione che in tv parla di politica dando pareri e patenti di legittimità morale a destra e a sinistra è ormai un fatto così abituale che anche il Csm non si scandalizza più – ed è una realtà destinata a trovare un suo punto di congiunzione naturale con un altro pezzo d’Italia che si trova a sinistra e che giorno dopo giorno sta tentando in tutti i modi di dimostrare come sia salutare per il paese lasciare ai magistrati il governo dell’Italia.

 

Il modello Davigo, che avrebbe le carte e le caratteristiche giuste per organizzare un gemellaggio in prima serata da Floris con il modello di governo offerto dagli ayatollah iraniani, è un modello di governo che si sposa perfettamente con un’idea portata avanti da un pezzo importante della sinistra italiana che non si trova solo fuori dal Pd ma che si trova anche all’interno dei confini del partito guidato da Renzi. Un pezzo di sinistra che – vedi l’approvazione del codice antimafia che trasforma in legge la cultura del sospetto creando una simmetria impossibile tra i reati di mafia e i reati di corruzione – sembra essersi decisa a considerare il giustizialismo come la forma più raffinata di politica da adottare per offrire al paese una proposta concreta di giustizia sociale e che non sembra essere affatto preoccupata dall’idea di concedere ogni giorno ai magistrati uno strumento in più per esercitare in modo del tutto discrezionale la propria funzione di tutori della legge (l’ex ghostwriter del ministro Andrea Orlando, il bravissimo Massimo Adinolfi, editorialista del Mattino, da giorni critica il ministro Orlando per il regalo fatto all’Italia manettara, e ieri il ministro Orlando, in una lettera al Dubbio, ha replicato al suo ex consigliere e al direttore del Mattino difendendo i tratti garantisti della sua riforma e definendo accecati da una cultura di destra i critici del codice antimafia).

 

Per ragioni diverse ma in un certo modo simmetriche l’Italia del codice anti mafia e l’Italia del governo Davigo fanno parte di una stessa terrificante Italia e di uno stesso incubo all’interno del quale i magistrati sono legittimati a dettare l’agenda di un paese, ad avere potere di vita e di morte sulla politica, ad azionare in modo del tutto legale i meccanismi della gogna giudiziaria e a essere coccolati in prima serata come i custodi di una moralità prima ancora che di una legalità. Nel corso del vaffa day organizzato martedì sera da Piercamillo Davigo nel salotto di Giovanni Floris, l’ex conduttore di “Ballarò” e giornalista di Repubblica Massimo Giannini ha sostenuto che “la vera emergenza nel nostro paese è la crisi economica non lo scontro politica-magistratura”. Ci permettiamo di far notare a Massimo Giannini che forse il dramma del nostro paese oggi è proprio questo: osservare senza battere ciglio un pezzo d’Italia e un pezzo di opinione pubblica che non considerano un’emergenza per la nostra democrazia la legittimazione quotidiana di una repubblica fondata sulla cultura del sospetto e sul maosimo giudiziario. Se davvero esiste un’Italia anti populista forse prima di parlare di economia bisogna partire da qui.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.