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"Bisogna reagire al giustizialismo e alla cultura del sospetto". Parla Barbano

Luciano Capone

Il direttore del Mattino su Rosy Bindi e codice antimafia

Roma. Quando la presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi ha attaccato alcuni direttori (“mi sembra che facciano gli interessi dei loro proprietari, dei loro editori, che sono costruttori”), ce l’aveva con Alessandro Barbano, direttore del Mattino di Napoli, che ha la colpa di aver preso una posizione critica rispetto al nuovo Codice antimafia, che estende le misure di prevenzione antimafia ai sospettati di corruzione e stalking. “E’ stato un attacco molto spiacevole, che offende l’autonomia dei giornalisti – dice Barbano al Foglio –. Ho assunto questa iniziativa in piena libertà e senza consultarmi con l’editore. Anzi, a posteriori l’editore mi ha espresso di non essere d’accordo con me su questo punto”. L’ha visto come un attacco alla sua persona o al suo giornale? “E’ stata un’aggressione alla libertà di stampa, molto spiacevole per una rappresentante delle istituzioni e molto grave perché considera i giornalisti come persone senza autonomia. E questo è doppiamente falso, in generale e nel caso specifico del direttore del Mattino”.

 

E allora come mai questa entrata a gamba tesa? “Evidentemente la Bindi, adusa com’è a una logica del sospetto e alle reazioni corporative del suo mondo, proietta sull’informazione le sue pratiche e la qualità delle sue relazioni”. Oltre all’elemento psicologico, c’è un motivo politico dietro le accuse ai giornali? “E’ un goffo tentativo di delegittimazione delle voci critiche per uscire dal cul de sac in cui la presidente dell’Antimafia si è infilata. Questa legge è stata sconfessata non da una parte del mondo giuridico, ma da tutti i più autorevoli giuristi di ogni scuola e orientamento”. L’elenco è lungo: Valerio Onida, Giovanni Maria Flick, Libero Mancuso, Giuseppe Tesauro, Sabino Cassese, il presidente della Cassazione Giovanni Canzio, il presidente dell’Anac Raffaele Cantone, Giovanni Verde,“il massimo giurista penale italiano Giovanni Fiandaca e anche Luciano Violante, che ha presieduto la commissione Antimafia prima della Bindi”. Cosa hanno detto? “Sull’estensione dei sequestri e delle confische ai sospettati di corruzione – dice Barbano – si sono espressi all’unisono con tre aggettivi: inutile, controproducente e incostituzionale”. Difficile pensare che siano tutti al servizio di oscuri interessi. “E’ semplicemente grottesco. L’aggressività della signora Bindi è lo specchio dell’angolo angusto in cui si è cacciato il gruppo che ha imposto questo provvedimento a una maggioranza esangue. Ma indica un problema più profondo”. Quale? “Segnala che è stata imposta una legge contro la delega e l’autorevolezza dei saperi ed è un grave sintomo della malattia della democrazia.

 

Qualche decennio fa sarebbe stato impensabile, il sapere esercitava un limite all’azzardo dei politici spregiudicati, oggi no”. Sono così tutti i parlamentari che hanno approvato il Codice antimafia? “No. Ed è proprio questo il punto: nella maggioranza parlamentare ci sono anche persone di cultura e preparate, che però sono messe all’angolo dai pasdaran del giustizialismo che stanno dentro e fuori il Pd”. Forse c’è il timore di subire un trattamento analogo al suo. “Evidentemente c’è la paura di essere scavalcati dalla piazza, dai grillini, dal radicalismo che fa passare chi è moderato per compromesso o addirittura colluso. E’ questa la logica. In fondo basta poco a sporcare la ragionevolezza con i giudizi allusivi, ma da questo assedio del giustizialismo i riformisti e i liberali rischiano di uscire sconfitti se rinunciano al coraggio”.E’ per uscire dall’assedio giustizialista che il giorno dopo l’approvazione del codice antimafia il Mattino è uscito con la prima pagina a lutto? “Il Mattino è storicamente un giornale equilibrato – dice Barbano – ma ha voluto lanciare un allarme su quanto è accaduto nell’indifferenza di tutta la grande stampa italiana. C’è ormai un piano inclinato che va verso il populismo giudiziario”.

 

I giudici che vanno in tv a dire che è vergognoso usufruire di un istituto giuridico come la prescrizione inclinano ancora di più questo piano? “Lo slittamento giustizialista parte dalle élite e poi arriva alle masse. Non è solo Davigo a dire che la prescrizione è una vergogna, ma anche alcuni magistrati nell’inaugurazione dell’anno giudiziario. La prescrizione è una garanzia per l’imputato di non essere sottoposto a un giudizio troppo lungo che di per sé diventa persecutorio. Ciò che deve vergognare è la lunghezza del processo e non la prescrizione, che anzi è un antidoto”. Come mostra il nuovo codice, ormai il confine tra antimafia e anticoruzione è impalpabile. Lei ha visto da vicino il caso emblematico dell’inchiesta Consip, che ha portato a uno scontro nella procura di Napoli perché se n’è occupato Woodcock (antimafia) anziché D’Avino (reati contro la Pa) . “L’invasione di campo risale all’inizio dell’inchiesta, quando il procuratore Colangelo tentò di tracciare una linea ma fu bloccato da un’assemblea di una parte correntizia dei pm”.

 

Tutti sapevano ma il caso emerge solo ora? “La vicenda è esplosa perché se n’è occupata un’altra procura in contrasto con quella napoletana. Altrimenti probabilmente non si saprebbe nulla dei verbali falsificati – prosegue Barbano – eppure diverse asimmetrie si conoscevano, c’era un procedimento disciplinare da due anni al Csm sul caso gemello Cpl Concordia e l’avevano dimenticato tutti, a parte il Mattino e il Foglio”. E questo che vuol dire? “Che nella magistratura non c’è la capacità di risolvere i problemi autonomamente, il caso Consip dimostra che l’unico anticorpo ancora presente nel sistema giudiziario è il conflitto”.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali