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Il Team Sky e la scienza perfetta del ciclismo

Giovanni Battistuzzi

Il Tour de France conquistato da Geraint Thomas è solo l'ultimo atto di una rivoluzione iniziata da Dave Brailsford nel 2009

Quando nell'autunno del 2008 Dave Brailsford, allora dirigente della Federazione ciclistica britannica, si recò alla British Sky Broadcasting aveva un solo progetto in testa, diverse idee e pochi soldi in tasca per metterle in pratica. Ci vollero diversi mesi per firmare l'accordo di sponsorizzazione, pochi minuti per convincere i manager dell'azienda di Murdoch a finanziare la squadra che avrebbe debuttato nel ciclismo un anno e mezzo dopo. "Entro cinque anni porteremo un inglese sul podio più alto di Parigi", esordì Brailsford. "E ce la faremo perché realizzeremo una formazione che farà entrare il ciclismo in una nuova modernità". Non erano solo parole. L'inglese portò un primo report che illustrava come un nuovo approccio radicale a questo sport poteva portare benefici tali che si poteva costruire una squadra capace di vincere tutte le grandi corse. "Per realizzare il mio progetto ho bisogno di un team di eccellenze". E non parlava di corridori. La Sky investì 30 milioni di sterline per i primi quattro anni. Gli altri arrivarono dalla Federazione e da sponsor secondari come Adidas, Jaguar, Pinarello.

 

Il Team Sky venne ufficializzato nel febbraio del 2009. Iniziò a pedalare in gruppo nel febbraio del 2010. La prima vittoria la ottenne al Tour Down Under con Chris Sutton, sei giorni dopo il debutto. La prima stagione la chiuse con una ventina di vittorie e una tappa conquistata al Giro d'Italia. Tutto (più o meno) come aveva immaginato il manager inglese. Su una cosa però Brailsford si era sbagliato: per avere il primo inglese sul gradino più alto del Tour de France alla British Sky Broadcasting non dovettero aspettare cinque anni, ne bastarono tre. Dovettero aspettare il 22 luglio del 2012, quando Bradley Wiggins si vestì di giallo davanti all'Arc du Triomphe. Da allora la Grande Boucle non è stata conquistata dal team britannico soltanto nel 2014, quando Vincenzo Nibali riuscì a riportare in Italia la maglia gialla. Da allora ci hanno pensato Chris Froome per quattro volte (2013. 2015, 2016, 2017) e ieri Geraint Thomas a dimostrare come la "folle idea" di Brailsford, come venne chiamata da un dirigente del gruppo di Murdoch, non fosse poi così tanto folle.

 

Perché di folle non c'era nulla nel progetto del manager inglese e di folle non c'è nulla neppure oggi. Anzi. Tutto è estremamente scientifico, tutto si basa su di una fede totale e totalizzante sull'esattezza dei calcoli. E' stata questa la rivoluzione di Brailsford: aver trasformato il ciclismo in una scienza quasi esatta. E questo al di là delle accuse alla sua creatura di poca limpidezza, di ipercompetitività dovuta al budget superiore in possesso, che porta con sé il corollario più sgradevole: quello di "ammazzare le corse" e quindi di eliminare lo spettacolo.

 

Accuse che hanno un fondo di verità. Perché è vero che ci sono stati casi non limpidi nel passato e nel presente della Sky, come per esempio il ricorso in più occasione alle TUE (Therapeutic Use Exemptions), ossia le richieste di esenzione a fini terapeutici di sostanze non consentite, ma non è la sola squadra; perché è vero che ha il budget più alto tra le formazioni ciclistiche, ma bisogna anche saperlo spendere acquistando gli uomini giusti; perché è vero che la compagine Sky quando controlla la corsa spegne la fantasia dei rivali, ma è anche vero che non si può imputare a una squadra soltanto la colpa se il ciclismo è cambiato e le cosiddette "imprese di una volta" non ci sono più. Questo sport si è evoluto sia nella meccanica delle biciclette, sia nella preparazione atletica dei corridori, ha sostituito il pressapochismo con la scienza. Per questo continuare a mettere sulle stesso piano epoche diverse svilisce la cronaca sportiva: la nostalgia del passato vincerà sempre sul presente, perché Coppi, Bartali, Merckx, Pantani e compagnia sono entrati in una dimensione se non mitica, quantomeno mitizzata, che nessun ciclista moderno potrà eguagliare durante la carriera. Neppure Peter Sagan, figuriamoci un corridore come Chris Froome, che ha vinto molto, ma sta antipatico ai più.

 

Se il Team Sky non piace è per questi motivi. Perché vince spesso e volentieri, perché dimostra una superiorità a volte evidente, perché è difficile capire perché una nazione che per anni è stata periferia desolata del ciclismo sia diventata il centro dell'impero, perché i suoi corridori si muovono, molto spesso, come delle pedine in una scacchiera.

 

L'antipatia è però molto spesso figlia della difficoltà di capire i cambiamenti, specie se sono radicali. E quello che ha applicato la Sky al ciclismo radicale lo è stato davvero.

 

Perché se dal 2012 a oggi il team inglese ha conquistato il Tour per sei volte con tre atleti diversi, gran parte del merito è di quel approccio differente utilizzato da Brailsford, della sua decisione di puntare sull'eccellenza, sulla novità, su un'idea di squadra che superava la somma delle capacità dei ciclisti in organico, ma che partiva da chi sta dietro le quinte, da chi la bicicletta non la pedala in competizione, ma che la studia, la interpreta, rende l'uomo che la muove tutt'una con essa.

 

Il ciclismo secondo il Team Sky 

Quando Brailsford ha presentato la sua idea di team non ha chiesto campioni attorno ai quali creare un team, ha preteso uomini da affiancare ai corridori. Ha puntato sull'idea che il corpo umano è perfettibile, soprattutto quando pedala: per vincere bisogna "aggregare guadagni marginali", ossia avere "l'un per cento di margine di miglioramento in tutto ciò che un corridore fa". E per guadagnare quell'un per cento serviva il meglio che c'era in circolazione tra gli ingegneri biomeccanici, tra i preparatori fisici, tra i massaggiatori, tra i dietisti e i meccanici. Brailsford ha passato un anno per le università a scegliere il meglio. Poi si è occupato dei corridori.

 

Una scelta che continua ancor oggi. Il Team Sky è uno delle poche formazioni ciclistiche al mondo che esce dalla logica 90/10, ossia il 90 per cento delle risorse impiegato per ingaggiare i corridori, il 10 per cento per i tecnici. I ciclisti pesano nel bilancio per il 70 per cento, i tecnici per il 20. Il resto è impiegato nella ricerca. "Evolversi, capire nel modo migliore possibile come funziona il corpo è l'unica possibilità che abbiamo per continuare a vincere", ha detto più volte il manager inglese. Qualcosa che è apparsa evidente nel novembre del 2016, quando mentre Chris Froome si godeva le vacanze in Australia, allo stesso tempo si trovava in una galleria del vento in Norvegia. E questo è stato possibile grazie a un'ingegnere italiano che stava migliorando l'aerodinamicità della posizione in sella del keniano d'Inghilterra grazie a un clone meccanico che aveva forme, dimensioni e resistenza all'aria uguale al corridore.

 

"E' impensabile nel ciclismo non avere alcuna libertà di manovra", disse Mark Cavendish quando se ne andò dalla Sky nel 2013. Per altri non è però così impensabile. Almeno per chi nel team inglese ancora rimane. Brailsford e compagnia gestiscono e pianificano tutto. Dagli allenamenti alla condotta in gara, perché "il corridore che genera più potenza, per la durata più lunga, pur pesando il meno possibile e scivolando in modo efficiente nell'aria, vince solitamente la gara", ripete Tim Kerrison come fosse un mantra. Perché "ogni pedalata di un corridore della Sky viene registrata da un misuratore di potenza, analizzato utilizzando un software e confrontato con i modelli di curva di potenza di Kerrison". Quelli che indicano a che punto stai della preparazione fisica e quanto ti manca per presentarti in uno stato di forma ottimale a una corsa. Quelli che inoltre ti dicono quanto puoi andare forte e per quanto tempo senza correre il rischio che l'acido lattico si appesantisca in modo irreversibile le gambe. E per arrivare a questo livello di perfezione l'unica modalità possibile è quella di seguire pedissequamente quello che i tecnici della Sky dicono. Senza alcuna eccezione. Senza alcuno sgarro.

 

 

E' questo sistema ipermeritocratico ad aver reso la Sky uno squadrone quasi imbattibile. E' la fede nella scienza e nella tecnologia ad aver permesso a Wiggins, Froome e ora Thomas di conquistare il Tour de France. E' il rispetto dei piani e delle tabelle ad averla resa una formazione difficilmente battibile. Anche quando queste sembrano essere scompaginate dagli avvenimenti della corsa. Come all'ultimo Giro d'Italia, quando le cadute aveva azzoppato Chris Froome e allora in ammiraglia pianificarono la grande impresa verso lo Jafferau. Tutto era calcolato: dal momento nel quale il keniano d'Inghilterra doveva partire, il numero di battiti da non superare, sino al posizionamento dei cambi ruota. E questo, non toglie nulla all'impresa, anzi dimostra che anche in un sistema che punta alla perfezione, c'è spazio per l'improvvisazione creativa per quanto pianificata.

 

Non è facile accettare che uno sport come il ciclismo, dove la generosità e la capacità di superare la fatica, dove il coraggio e la volontà di non mollare sono state da sempre le componenti principali nella creazione di un legame tra corridori e appassionati, si sia trasformato in uno sport dove scienza e tecnica hanno raggiunto un livello predominante. Eppure è successo. Proprio per questo ignorare quanto fatto dalla Sky per continuare soltanto con il clima di sospetto e accuse non sempre troppo velate di assunzione di sostanze dopanti, amplificherà ancor di più il vantaggio del team inglese, peggiorando lo spettacolo nel ciclismo. E anche qualora in un futuro prossimo queste accuse si riveleranno vere, il modello Sky non potrà essere mai ridotto esclusivamente a questo. 

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