Geraint Thomas con il trofeo vinto al Tour de France (foto LaPresse)

Il trofeo rubato a Geraint Thomas e la lezione del Diavolo Rosso

Giovanni Battistuzzi

Un ladro ha preso la coppa conquistata dal ciclista gallese all'ultimo Tour de France. Ma forse non sa cosa successe nel 1912

È una bella coppa, oro e blu lapislazzulo, con un gusto un po’ antico, greco. Sembra una versione moderna e senza manici della kylix, una di quelle belle coppe da vino che molto spesso si trovano nei musei archeologici siciliani. Messa in una vetrina dà senz’altro un tono all’ambiente, e anche sopra una tavola farebbe il suo effetto. “Sai che figura ci fa come fruttiera”, aveva scherzato Jan Ullrich quando l’aveva vista alzare dal compagno di squadra Bjarne Riis davanti all’Arc de Triomphe nel 1996. L’anno successivo, quando fu lui a riceverla in premio dopo aver vinto il Tour de France si limitò a dire di essere “molto soddisfatto”.

 

Quando quella coppa era arrivata tra le mani di Geraint Thomas a fine luglio, il primo gallese ad aver conquistato la Grande Boucle, l’aveva guardata con una certa soddisfazione. Poi una volta sceso dal podio si disse “estasiato”, quindi aggiunse sorridendo: “Ci sono oltre tremila chilometri in questa coppa”. E ancora: “Se sono arrivato qui con questa maglia lo devo ai miei compagni. Sono stati fantastici. Questo è un trofeo di squadra”. Ma quando un trofeo personale diventa collettivo non può rimanere chiuso in una teca, va fatto girare, serve a dar lustro alla squadra. E pure a chi ci ha messo le biciclette, perché cos’è un ciclista senza bicicletta? Thomas l’ha concesso al Team Sky che l’ha concesso a Pinarello per esporlo al National Exhibition Center di Birmingham in occasione del Cycle Show. Era rimasto lì per giorni a fianco della maglia gialla indossata dal gallese, ad alcune biciclette e altri cimeli. Poi è sparito. L’avevano perso di vista un attimo, il tempo di fare chissà cosa e il trofeo è evaporato, scomparso, rubato da qualcuno. Thomas si è arrabbiato parecchio, o almeno così ha fatto sapere chi lo conosce, perché lui pubblicamente si è limitato a usare toni pacati, quasi teneri: “E’ una gran sfortuna che sia successo. Inutile dire che il valore della coppa è piuttosto limitato, ma per me e per la squadra significa molto, anche se ciò che conta di più sono gli incredibili ricordi e questi nessuno potrà mai portarli via”. Poi un appello, il solito in queste circostanze: “Spero che chi lo ha preso abbia l’accortezza di restituirlo”.

 

Commerciare in memorabilia non è facile, nonostante il mercato sia ampio e danaroso. Comporta i suoi rischi, primo tra tutti essere beccati. La polizia inglese ha già iniziato le indagini, ha dichiarato che “il furto dovrebbe essere stato messo a segno tra le 18,30 e le 19,30 del 29 settembre”. Altri dettagli non sono stati forniti.

Ma al ladro di oggi andrà senz’altro meglio che a un ladro di oltre cent’anni fa. Perché una cosa è certa: è meglio avere le manette ai polsi che il Diavolo Rosso davanti, furente, incazzato nero.

 

Era l’alba del secolo scorso. Era di luglio, quello del 1905, e Giovanni Gerbi aveva conquistato la prima edizione della Corsa nazionale, che altro non era che “il trofeo più eccellente dell’italico velocipedismo”, o almeno così era presentato. Andò diversamente, ma all’epoca tutti erano convinti che fosse davvero così, bastava il nome. C’era una bella coppa in palio, un mazzo di fiori colorato, soprattutto un ricco assegno. Il Diavolo Rosso scese dal podio di Vigentino, poche centinaia di metri fuori Porta Romana a Milano, ma all’epoca fieramente comune autonomo, posò la coppa, mise in saccoccia l’assegno. Quando si girò il trofeo era sparito. Iniziò a sbraitare, a gridare “alladroalladro”, ma del ladro nessuna traccia.

Nei giorni seguenti Gerbi piazzò manifesti in tutta la zona, di quelli all’americana, con su scritto “prendetelo vivo o morto”, ma al posto della faccia del ricercato un punto di domanda. Nessuno fece alcuna segnalazione.

Per anni del trofeo non se ne seppe nulla. Poi accadde che nella primavera del 1912 il Diavolo rosso si recò nel capoluogo milanese per degli “impegni personali”, si fece un giretto per Porta Genova e nel passeggiare sbirciò dentro un’osteriola. Lì vide la coppa, quella coppa, la sua coppa. Si infuriò. L’oste però era un brav’uomo, mica un ladro e così lo portò da chi gliela aveva venduta. Il Diavolo Rosso gli saltò addosso, iniziò a malmenarlo. Finì con il ladro in ospedale e la coppa nelle mani del legittimo vincitore.