Chris Froome è nato a Nairobi il 20 maggio 1985. Corre per il Team Sky (foto LaPresse)

Dannato Froome

Giovanni Battistuzzi

Il secondo Tour vinto, le illazioni, lo spettro del doping. Ora è di fronte al tribunale d’inquisizione della stampa e della televisione francese nonostante i test antidoping siano tutti nella norma. Perché nel ciclismo c’è una caccia alle streghe in nome dello sport pulito. 

La strada che sale, che si inerpica da valle sino alla sommità del monte, tra creste alpine, panettoni pirenaici, boschi e pietraie sembra ormai non essere più il luogo delle bici, dei ciclisti in veloce agonia per una maglia, gialla o bianca a pois rossi che sia. Quella strada è diventata un’aula di tribunale dove va in scena tappa dopo tappa la caccia all’uomo, il processo all’azione sportiva, giudiziario sia chiaro, non più atletico. Il Tour è finito, la sua storia già scritta, ma il vociare di sospetti e accuse, di illazioni e diffidenze ancora non si placa, perdura in Francia in un clima da caccia alle streghe, in un maccartismo a pedali fatto di dita puntate e arricciamenti di naso. Lo spettro che aleggia sulla schiena dei corridori è il solito, il doping. E’ la caccia al colpevole, perché uno dev’esserci, per forza, perché è necessario un capro espiatorio da sacrificare innanzi all’altare dell’universale diritto allo sport pulito. E’ l’inquisizione ciclistica, bellezza, telenovela sportivo-giudiziaria, un Perry Mason in bicicletta, che ricerca, scruta, analizza, va pazza per dati e grafici, per Vam (velocità ascensionale media) e watt, telemetrie e numeri, quasi come se il ciclismo si fosse tramutato in una Formula 1 qualsiasi, come se fossero ormai solo la tecnica e la tecnologia a guidare le gambe dei corridori.

 

La nuova puntata ha come protagonista assoluto Chris Froome, inglese nato in Kenya, vincitore dell’ultima Grande Boucle, maglia gialla da Fougères, settima tappa, a sotto L’Arc de Triomphe. Imputato per manifesta superiorità lungo l’ascesa di La Pierre-Saint-Martin, decima tappa, primo arrivo pirenaico della corsa: rivali schiacciati, reclusi in ritardi abbondanti e Tour ucciso. La corsa che doveva essere segnata dalla lotta tra i magnifici quattro – Froome, Alberto Contador, Nairo Quintana e Vincenzo Nibali –, si trasforma alla prima occasione nel dominio inglese griffato Sky, il team finanziato dal colosso televisivo e dalla federazione ciclistica inglese, abile a programmare vita, allenamento e tattica di corsa dei suoi uomini, sino a trasformarli in vincenti.

 

 

L’ascesa di Froome è un soliloquio, una prova magistrale di superiorità ciclistica, assolo, tripudio, dominio. Troppo forte il keniano per gli altri, troppo forte per essere merito della sola forza fisica, fanno intendere la stampa e la televisione francese. E così la salita di La Pierre-Saint-Martin da trono diventa flagellazione personale. Anzi collettiva, della Sky, che oltre la vittoria ha ottenuto il secondo posto con Richie Porte e il sesto con Geraint Thomas. L’indomani spuntano su YouTube due video del corridore della Sky durante l’ascesa al Mont Ventoux del Tour de France 2013 (il primo vinto da Chris) nel quale appaiono in sovrimpressione i dati fisiologici dell’atleta hackerati pochi giorni prima dall’archivio informatico della squadra inglese – sottrazione denunciata ufficialmente – e che mostrano parametri sorprendenti: pulsazioni basse nonostante lo sforzo, watt espressi a livelli dell’epoca Armstrong, Vam (ossia il parametro che misura il numero di metri di dislivello in salita percorsi in un’ora), mai raggiunte da nessun ciclista. Il video è prontamente mandato in onda dal canale televisivo France2 in un servizio che commentava la prestazione come “oltreumana”.

 

 

Quei dati diventano accusa e poco importa se la parola doping non sia mai esplicitamente detta, è quello che non viene esplicitato a contare, le mezze parole a ergersi a giudizio insindacabile, è quell’oltreumano a pesare sulle spalle esili del corridore keniano, a riportare alla mente quel passato che il ciclismo prova a dimenticare, ma che ritorna immancabilmente a ogni prestazione non ordinaria, come se qualsiasi impresa non potesse più essere possibile senza il ricorso a sostanze proibite. Il ciclismo riscopre a ogni Tour la perdita della sua verginità, le sue eccezionalità si trasformano da vanto a problema, le sue bellezze perdono le sembianze di grazie e dive per assumere solamente quelle di meretrici infestate dalla peggior malattia che questo sport ha visto diffondere: il doping.

 

Se Froome abbia assunto o meno sostanze dopanti non è ancora dato a sapersi. I suoi test sono sempre risultati negativi, i valori ematici catalogati nel passaporto biologico – ossia la tecnica antidoping introdotta dalla WADA (World Anti-Doping Agency) che consiste nel tracciamento nel tempo dei parametri del sangue dell’atleta – in ordine. Questo però non basta. Sul corridore si sono concentrati comunque i sospetti di parte dell’opinione pubblica, le luci della inquisizione dell’antidoping collettivo si sono accese e continueranno a essere puntate su di lui sino a quando non verrà colto in fallo per poter finalmente allestire un vero processo, perché è questo che in molti aspettano, vedere l’olimpo ciclistico cadere per poter continuare a illudere tutti della limpidezza dello sport.

 

Froome è solo l’ultimo capitolo di quella serie letterario-giudiziaria di erbacce da diserbare a ogni costo iniziata sulle rampe del Mont Ventoux al Tour de France del 1967. Il 13 luglio di quell’anno, durante la tredicesima tappa, probabilmente a causa di un eccesso di anfetamine, si fermò il cuore dell’inglese Tom Simpson. L’apice venne raggiunto durante la Grande Boucle del 1998, l’anno dell’affaire Festina, quando il mondo sportivo ebbe conferma dell’esistenza del doping di squadra. L’esclusione della formazione francese, a causa del rinvenimento nell’auto del massaggiatore di centinaia di dosi di eritropoietina, anabolizzanti e anticoagulanti del sangue, è stata l’inizio di quella fase che potremmo definire del disincanto rispetto alle gesta atletiche dei campioni di questo sport. L’Unione ciclistica internazionale iniziò a studiare un protocollo per affinare la ricerca di sostanze illecite nel sangue e nelle urine dei corridori e gli appassionati scoprirono la componente farmaceutica alla base di certe prestazioni. I tifosi iniziarono a convivere con squalifiche e farmaci, con parole come Epo, Cera, Testosterone, diuretici e trasfusioni, soprattutto con la consapevolezza della possibilità che le prestazioni sportive del singolo potessero essere in qualche modo aiutate dalla ricerca medica e farmaceutica. Non più la cosiddetta bomba dell’epoca di Coppi e Bartali, un mix mai ben definito di Simpamina (anfetamina), caffè e stimolanti, ma l’esistenza di un substrato farmacologico capace di innalzare a dismisura i normali limiti fisici.

 

Prima di Simpson infatti il doping era risaputo ma tollerato, accettato, perché la fatica era tanta, troppa, e andava pur agevolata con qualcosa: a quelle gambe e a quel destino da forzati della strada si potevano perdonare aiuti. Nel 1924, le dichiarazioni dei fratelli Péllissier, forse i ciclisti più noti e importanti dell’epoca, al giornalista Albert Londres, reporter in mezzo mondo, ritornato dalle colonie penali francesi e inviato al Tour nonostante poco o niente sapesse di ciclismo, non destarono indignazione, ma pietà, vicinanza: “Voi non avete idea di cos’è il Tour de France, è un calvario”, aggiunsero: “Volete vedere come andiamo avanti? … ecco, questa è cocaina per gli occhi, questo è cloroformio per le gengive … questa è pomata per riscaldarmi le ginocchia. E le pillole? Volete vedere anche le pillole? A voi, signori! Eccole qui! – ne tirano fuori tre scatole a testa –. Per farla breve, andiamo avanti a colpi di ‘bombe’”. Bombe, le stesse su cui ironizzavano Coppi e Bartali in televisione, le stesse che l’Airone candidamente ammise di usare: sono “un paio di gambe di ricambio. E’ composta da ingredienti segreti, i principali dei quali sono la simpamina e la fiducia che funzioni” e tu la prendi, Fausto Coppi?, “Naturalmente”, Tutti i corridori prendono la bomba? “Sì, tutti, e a quelli che dicono di non prenderne è bene non avvicinarsi con fiammiferi accesi”, quando prendi la bomba?, “Quando serve”, e quando serve?, “Quasi sempre”. Pensare che qualcuno possa dire qualcosa del genere adesso è follia.

 

 

Nonostante le contromisure dell’antidoping, i casi di positività si sono susseguiti negli anni, capitani e gregari hanno subito squalifiche e radiazioni, numerosi atleti si sono sentiti affibbiare l’aggettivo “drogato”, nonostante il doping non sia droga, anzi l’opposto, è eccesso di cura preventiva, anche senza motivo o bisogno. Questi casi hanno reso vano, almeno per quanto riguarda una gran parte dell’opinione pubblica, il tentativo di pulizia di questo sport, che si è (ri)umanizzato, ha abbassato medie di gara ed exploit poco chiari, ma che non si è totalmente ripulito dall’alone della chimica, tanto da perdere la sua stessa essenza: la capacità di uomini apparentemente normali di compiere imprese incredibili. Il ciclismo sembra aver smarrito con l’ossessione per il doping il ricordo del volo solitario di Fausto Coppi nella Cuneo-Pinerolo al Giro del 1949, l’assolo di Gino Bartali sul Tourmalet nel 1939 e quello di Eddy Merckx sempre sui Pirenei nel 1969, di aver scordato e rottamato il suo grande passato, quando le imprese erano ancora concesse agli atleti e non venivano indagate e messe sotto la lente dello scetticismo.
Froome è l’ultima pagina di questo disincanto, di questa diffidenza per l’impresa sportiva, perché vincere si può, si deve, ma farlo disintegrando la resistenza degli avversari, infliggendo pesanti distacchi a tutti è diventato sconveniente, non ammissibile.

 

[**Video_box_2**]Sul giudizio del keniano però non pesano solamente le prestazioni in gara, le vittorie. A generare perplessità è in primis il suo modo di pedalare: l’atleta della Sky in bicicletta è goffo, sgraziato, gambe larghe e gomiti in fuori, schiena storta e spalle che ciondolano in maniera scomposta, un elefante su due ruote, nonostante il fisico esile e allampanato. Froome non scatta, non affronta le salite come uno scalatore alzandosi sui pedali per cercare di fare il vuoto, se ne sta seduto in sella e frulla a una frequenza di pedalate incredibile. E’ figlio del metodo Armstrong, massima agilità per ritardare la formazione di acido lattico e una cadenza altissima che supera i 90 giri di pedale al minuto, rivoluzione – al limite della New Age – di intendere il ciclismo: la differenza sugli avversari non la si fa più con il rapporto, ma con la frequenza. E poi quella testa sempre bassa a scrutare il ciclocomputer, battiti e watt generati, che lo rendono più simile a un automa che a un atleta, nemesi stessa di generazioni di campioni che si lasciavano trascinare solo dall’istinto e dalla voglia di stupire. All’appassionato di ciclismo, di per se conservatore e tradizionalista fino all’eccesso, capace di passare ancora ore in osteria a discutere se fosse migliore Coppi o Bartali, tutto questo provoca un certo fastidio: il calcolo e il centellinare lo sforzo è un insulto, alla gente piace il temerario, colui che prova il colpo a effetto, il resto è finzione, come non sport. E se vince, genera dubbi. Froome rappresenta tutto quello che non piace: corre attaccato alla radiolina parlando con il suo direttore sportivo che gli suggerisce cosa fare – qualcuno maligna che lo guidi pure nell’andare in bagno –, non è aggraziato, non è spettacolare, non è simpatico, neppure spocchioso, il che nei francesi genera un certo fascino; è schivo, “al limite dello stronzo”, ha sentenziato senza troppi giri di parole Richard Virenque, uno che spocchioso lo era davvero e che anche per questo era amatissimo dai tifosi. E poi trova sempre la dichiarazione buona per farsi odiare. L’ultima dopo la conquista del suo secondo Tour. Al giornalista che gli ha ricordato che il suo primo direttore sportivo non avrebbe mai pensato potesse fare un exploit alla Pantani ha risposto: “Non amo essere accostato a certi corridori. Mi sento molto diverso dai ciclisti di un certo passato e dal loro modo di interpretare il nostro sport”. Apriti cielo. Se c’è qualcosa che accomuna il tifo francese a quello italiano è, per ovvi motivi, l’amore per il modo di correre del Pirata.

 

Uno così non lo si può amare, non lo si può tifare, non genera trasporto emotivo, ma da qui ad accusarlo, più o meno esplicitamente, di doping ne passa. Il problema è che “il retroscena, il chiacchiericcio, l’accusare senza muovere accuse specifiche, ha ormai creato un’atmosfera irrespirabile”, ha detto il tre volte vincitore del Tour Greg LeMond all’Nbc. Si è arrivati a un’inquisizione senza tribunale, dove “si è colpevoli di doping in ogni caso, basta che a qualcuno venga il dubbio che una vittoria possa non essere tutta farina del proprio sacco”.

 

Un clima che riporta “agli anni bui, quelli subito successivi allo scandalo Festina”, quelli di cui Froome non vuole nemmeno sentir parlare. Eppure proprio quanto successo a Pantani dovrebbe essere ricordato a quelle dita che si puntano facilmente contro Froome, perché oggi come allora sembra che serva un capro espiatorio, qualcuno che possa riempire prime pagine e servizi televisivi per ricordare a tutti che il ciclismo è stata roba sporca, ma si sta ripulendo e chi prova a fare il furbo viene preso e sbattuto all’angolo, fustigato in nome dello sport pulito.

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