(foto LaPresse)

L'azzardo svedese

Stefano Cingolani

L’eccezione del paese scandinavo, che ha deciso di non chiudere le sue città. Stoccolma è stata risparmiata dalla calamità oppure la sta ignorando? Una società orgogliosa, raccontata da chi la vive, e il mondo che verrà

Pronto Giulia, come stai? “Bene, tutto ok. E’ arrivata la primavera finalmente”. Però è arrivato anche il coronavirus. “Certo, ma per ora si tiene lontano”. Dove sei? “In ufficio”. Come, non lavorate da casa? Nel paese più digitale e più connesso al mondo… “Non essere sarcastico come al solito, papà; tutto funziona, da te piuttosto?”. La rete è lenta ma regge. Dimmi, perché sei in ufficio? “Non c’è nessuna direttiva, ci sono raccomandazioni delle autorità. Comunque, non tutto si può fare a distanza, così abbiamo deciso di venire qui a turno”. E come ci arrivi? “In metropolitana”. Aiuto. Quanta gente c’è? “Beh, è affollata, però stanno tutti attenti”. Con guanti e mascherina? “Mah no, le mascherine non si trovano, sono riservate agli ospedali”. E perché non vai a piedi? “Ora che arriva la bella stagione lo farò, contento?”. Beh, non proprio, non c’è molto di cui essere contenti. Anzi. Più prosegue la conversazione telefonica con mia figlia, che vive e lavora a Stoccolma, più comincio a sudare. Ansia, preoccupazione e, lo ammetto, anche irritazione verso il governo di un paese europeo che ha deciso di nuotare controcorrente, sfidando tutti al punto da prendersi rischi inimmaginabili, poco comprensibili per noi che siamo chiusi in casa. Altro che lockdown, la Svezia non ha spezzato il circolo fertile dell’esistenza: le amicizie, gli affetti, la vita in comune, le attività produttive, il ristorante persino anche se a piccoli gruppi. Fioriscono i ciliegi dopo un inverno inusualmente caldo e i parchi brulicano di gente, di giovani, di bambini, perché quello è un paese dove si fanno un sacco di figli e dove il presente, non il futuro, è già sulle spalle dei millennial. Dieci milioni di abitanti, con un’età media di quarant’anni virgola sette, il 20 per cento sotto i 17 anni, la stessa quota degli anziani che superano i 65 anni di età. Sarà questo il naturale schermo protettivo? Arriva da qui l’immunità, o quanto meno la convinzione di fare da scudo alla pandemia? Ci sono stati fino a giovedì cinquemila casi con 239 morti, circa la metà nella capitale; la crisi è ancora controllabile.


Ansia, preoccupazione e, lo ammetto, anche irritazione verso il governo di un paese europeo che ha deciso di nuotare controcorrente


 

Giulia mi esprime i suoi dubbi e i suoi timori, ma cerca di spegnere certi italici bollori. Non è tutto aperto, come si scrive spesso. Agli abitanti di Stoccolma viene chiesto di lavorare da casa. Chiusi licei e università, mentre gli asili e le elementari funzionano ancora in base a una preoccupazione di fondo sulle conseguenze per le fasce sociali meno protette, per esempio i bambini più fragili o le donne vittime di violenza domestica. C’è di mezzo anche una questione di principio che riguarda l’impatto di un blocco generalizzato sulle libertà, sui diritti individuali, e sugli appetiti autoritari che non risparmiano nessuno. I despoti avanzano calcando le orme del Covid-19: Viktor Orbàn con quel che accade in Ungheria è un vero spettro. E al di là del mar Baltico c’è zar Putin. Di questo si discute persino più che della alternativa tra proteggere gli anziani o i giovani, come avviene invece in Italia. La sicurezza, da quella stradale a quella sanitaria, ossessiona gli svedesi i quali, però, non sono disposti a sacrificare un modello di società al quale credono fermamente.

 

In questi giorni c’è una accelerazione: si è iniziato a testare più persone mentre tre settimane fa si era smesso di fare tamponi agli ultra settantenni e ai malati. Viene limitato l’uso di medicinali per timore di una loro carenza. Non è escluso l’utilizzo delle app sui cellulari, ma si temono le ambigue conseguenze di un controllo così capillare e invasivo. La scelta del governo socialdemocratico è apparsa netta fin dall’inizio anche se non priva di contraddizioni messe in rilievo sia dalla opposizione di destra sia dal mondo della economia che riceve sostegni consistenti (la promessa è di proteggere fino al 9 per cento del pil), ma non a pioggia. La Svezia continua a crescere, però meno che in passato (+ 0,8 per cento secondo gli ultimi dati): si è fatta sentire la guerra dei dazi e la slowbalisation, la globalizzazione lenta, come la chiama l’Economist, anche se la bilancia con l’estero resta positiva (4 per cento del pil). Con un mercato interno limitato, il paese vive di esportazioni e i dazi sono vere mazzate. Il bilancio pubblico è attivo (0,4 per cento), quindi non mancano le risorse per far fronte all’emergenza, tuttavia la recessione è dietro l’angolo.


I veri dilemmi sono tra un approccio autoritario o uno volontario, tra l’imposizione dall’alto o la scelta consapevole


 

Jacob Wallenberg, capo della famiglia più ricca e potente del paese che possiede i pacchetti di controllo in alcuni dei maggiori gruppi economici, dalla Ericsson alla Seb la prima banca svedese, ha spostato in avanti il dibattito. “Finora l’alternativa era la vita contro gli affari, ma per me è la vita contro la vita”, ha detto al Financial Times. “La popolazione anziana deve essere protetta di più, forse messa in quarantena obbligatoria. Ma dovrebbe aprirsi anche una discussione su come tornare a una società vibrante con una ricca offerta culturale e vivaci ristoranti, così come dobbiamo pensare alla prossima generazione. Se la crisi va avanti, le economie potrebbero contrarsi del 20-30 per cento. Non ci sarà ripresa, ci saranno rivolte sociali e una disoccupazione drammatica. Le autorità lavorano duramente per aiutare la società durante l’emergenza”, conclude Wallenberg, “ma non stanno guardando al di là dell’angolo, non adottano una prospettiva di medio termine. Questo invece è molto importante per la nostra società e per la stessa Unione europea”.

 

Sono preoccupazioni simili a quelle che in Italia manifestano gli imprenditori o, tra i politici, soprattutto Matteo Renzi. Ma l’Italia è bloccata, la Svezia no. Non tutti sono d’accordo sulla scelta del governo, nemmeno nella comunità scientifica o tra i media. L’Organizzazione mondiale della sanità ha criticato Stoccolma perché non fa i tamponi. Secondo alcuni sull’atteggiamento delle autorità influisce anche il ricordo di decisioni prese troppo alla leggera: quando arrivò la peste suina venne decisa una vaccinazione in massa, senza calcolare gli effetti collaterali che in molti casi sono stati negativi (oltre tutto non esiste nemmeno oggi un vero vaccino che la possa debellare). “Il futuro sembra ancora gestibile”, ha detto Anders Tegnell, l’epidemiologo di stato che raccomanda di tenere aperte le scuole sottolineando che tra i giovani il tasso di infettati è molto più basso. Molti esperti hanno attaccato le sue consolatorie apparizioni televisive. Secondo Joacim Rocklov, epidemiologo all’Università di Umeå le autorità stanno prendendo enormi rischi: “Non vedo perché la Svezia debba essere diversa dagli altri paesi. Non abbiamo alcuna idea di che cosa potrà succedere: la scelta fatta potrebbe funzionare, ma potrebbe anche spingersi in modo folle nella direzione sbagliata. Non sappiamo quanto può durare la relativa immunità”. Peter Wolodarski direttore di Dagens Nyheter, il principale quotidiano del paese, ha criticato il governo perché rifiuta il lockdown. A suo avviso le raccomandazioni non bastano, soprattutto se l’epidemia diventa più acuta. L’ex primo ministro Carl Bildt è più ottimista e non biasima il governo anche se è un esponente autorevole del partito Moderato: le strade di Stoccolma si sono svuotate senza restrizioni legali, segno che la popolazione reagisce con grande autocontrollo. Tegnell, parlando alla radio, ha sostenuto che conoscere il numero esatto dei casi non ha senso, è meglio concentrarsi sui gruppi più vulnerabili, già ricoverati e sintomatici. Ha anche criticato l’Italia, dichiarando che “il sistema sanitario svedese ha prerogative decisamente migliori” nel gestire la diffusione dell’epidemia. Gli ha risposto l’ambasciatore italiano Mario Cospito, ricordando che “sia l’Oms sia l’Unione europea hanno manifestato pieno apprezzamento sulle azioni svolte dall’Italia”. E ha aggiunto: “La sfida al covid non è una partita di calcio, né sugli spalti si vedono opposte tifoserie che sperano nella vittoria della propria squadra: è una sfida comune ed epocale per garantire la salute di tutti”.


In questi giorni c’è un’accelerazione: si è iniziato a testare più persone mentre tre settimane fa si era smesso di fare tamponi ai malati


 

Tra modello italiano o modello coreano esiste un modello svedese? Se lo è chiesto il Dagens Nyheter senza arrivare a una conclusione netta. Intendiamoci, nessuno segue la teoria dell’immunità di gregge, tipo Boris Johnson, ma tra mitigare e sopprimere, prevale il contenimento selettivo, per aree, per fasce d’età, per generazioni. Se il lockdown integrale non è una opzione ciò non significa che non si potranno chiudere zone considerate a maggior rischio. Lo ha detto il primo ministro, il socialdemocratico Stefan Löfven, alla televisione, aggiungendo che quando la situazione peggiorerà si farà quello che è necessario. Al momento il problema più serio sembra quello di convincere gli stoccolmesi a non andare in massa nelle case vacanza per Pasqua o a sciare, come sempre accade. Per quanto ligi alle autorità, gli svedesi non rinunciano ai loro amati boschi, ai laghi, alla campagna, agli isolotti deserti del brulicante arcipelago che circonda la capitale.

 

La Svezia, dunque, risparmiata dalla calamità e orgogliosa della sua diversità? O la Svezia che fa finta di niente e si affida alla sorte? “Non è esattamente così”, mi corregge Giulia, “la gente discute, si confronta, ma alla fine crede nel welfare state, nella protezione pubblica, insomma nello stato dalla culla alla tomba. Gli italiani, anche quelli che vivono qui, sono preoccupati perché non capiscono l’animo svedese che è fatto di fiducia non solo negli esperti o nei politici, ma nella loro società e nella sua tenuta di fronte a situazioni anche catastrofiche. La maggior parte della gente segue le direttive, è una combinazione di disciplina e autocontrollo. Le città sono vuote rispetto all’inizio di marzo. Forse non come Berlino, Londra o Parigi, però nessuna di queste capitali ha deciso il lockdown quando erano in una situazione simile a quella svedese. Bisogna ammettere che il virus resterà tra noi finché non verrà scoperto e introdotto il vaccino. Noi sani e giovani dobbiamo imparare a conviverci e lo si sta facendo da subito. Tutti intorno a me dicono che non hanno paura per loro stessi, ma per gli altri, per i più deboli. E non solo gli anziani. Si pensi alle donne in gravidanza che, qui dove la natalità è alta, sono davvero molte”.


Convivere con l’epidemia? Il problema non è il coronavirus in sé, ma la capacità della sanità di curare chi ne viene colpito 


Combattere il Sars-Covid-2 e sopportarlo al tempo stesso, questa è la ricetta svedese. Il problema non è il coronavirus in sé, ma la capacità della sanità di curare chi ne viene colpito. Il vero timore è che gli ospedali non siano in grado di assorbire lo choc. La Svezia è molto indietro nelle classifiche internazionali con 2,5 posti letto ogni mille abitanti; anche l’Italia è indietro, ma ne ha 3,4, nulla rispetto al Giappone con 13,2 o alla Corea del Sud con 11,5, molto meno della Germania (8,3) o della Francia (6,5), meglio della Spagna e degli Stati Uniti. Le graduatorie fornite dall’Ocse e dagli osservatori internazionali non sono accurate perché spesso i criteri cambiano, come nel caso delle terapie intensive. Gli svedesi non primeggiano nemmeno in questa classifica, anche se la reazione è stata rapida: in una settimana a Stoccolma sono raddoppiate le postazioni disponibili. Nonostante siano per lo più sono ancora vuote, si sta creando una capacità produttiva potenziale, pronta a entrare in funzione. Tutto ciò non placa la polemica sul new public management, cioè il modello di gestione con criteri privatistici della pubblica amministrazione e del Welfare, applicato soprattutto nell’ultimo decennio, dopo la grande crisi finanziaria, dai conservatori e dai socialdemocratici, sia pure in dosi diverse. Per la sanità ha significato tagli e accentramento, in modo non molto diverso dall’Italia. A questo si aggiunge un altro criterio di efficienza economica, il just in time come viene chiamato nell’industria manifatturiera, che ha ridotto al minimo le scorte.

 

C’è poi un grande tema particolarmente sentito in un paese esportatore che vive e prospera grazie alle sue potenti multinazionali: la catena internazionale del valore s’è rivelata fragile, bisogna tornare a produrre in casa? Ma è davvero possibile? Dilemmi comuni, così come comune è la pressione della destra nazional-populista che brandisce la chiusura dei confini e il protezionismo. Anche in questo la Svezia non è affatto anomala. Attenti agli stereotipi, per esempio che la popolazione sia più preparata perché il governo ha fornito un manuale di resistenza alle catastrofi, come ha scritto il Financial Times. “Il pamphlet? Non so in quale cassetto l’ho riposto”, spiega mia figlia, “quando l’ho ricevuto due anni fa l’ho trovato ovvio. Ma forse ha avuto un impatto psicologico positivo su una popolazione che da due secoli non ha mai vissuto una guerra, né crisi tali da mettere in discussione la sua esistenza”.

 

L’eccezione svedese può cadere a mano a mano che il covid si estende. Lo dimostra il fatto che si è passati da raccomandazioni blande a direttive più stringenti: prima si vietavano gli assembramenti in luoghi pubblici oltre le 500 persone, poi si è passati alle 50; anche sui tamponi si è andati un po’ a zig zag e ora si cerca di rimediare. Tuttavia gli italiani non hanno colto il vero dilemma che non è tra proibire o laissez-faire, bensì tra un approccio autoritario o uno volontario, tra la imposizione dall’alto o la scelta consapevole. Primum vivere, d’accordo, nessuno lo nega, tuttavia la questione è fino a che punto la sicurezza reprime (se non sopprime) la libertà. La lotta alla pandemia può sospendere i diritti? La Svezia è una società molto liberale, al contrario di quel che spesso si fa credere, che vive in un bozzolo socialista. E gestisce l’emergenza di oggi pensando al domani, a come saremo quando la notte sarà lacerata dal chiarore dell’alba. Non si tratta di una discussione filosofica o da azzeccagarbugli. E’ realistico pensare che ci sarà una stretta anche da parte del governo di Stoccolma e scatterà un cordone sanitario se il manto nero della pandemia coprirà anche il mondo del nord. Tuttavia, arriverà il tempo in cui tutti noi dovremo ringraziare la terza via imboccata dagli svedesi perché ci ha consentito di tenere gli occhi aperti sul mondo che verrà.

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