La conferenza stampa di Shinzo Abe sull'emergenza coronavirus (foto LaPresse)

Altro che immunità giapponese. Tokyo dichiara l'emergenza (in enorme ritardo)

Giulia Pompili

Perché il primo ministro Shinzo Abe va in lockdown

Roma. Altro che immunità, altro che farmaci miracolosi. Molto in ritardo rispetto ad altri paesi dell’area, anche il Giappone ha dichiarato lo stato d’emergenza. Riguarderà per il momento due aree metropolitane speciali e cinque prefetture: Tokyo e Osaka, la prefettura di Saitama, quella di Kanagawa, Hyogo, Chiba e Fukuoka, e durerà almeno fino al 6 maggio – cioè fino alla fine della Golden week giapponese, la settimana di festività più importante per la cultura nipponica. Sono più di quattromila i casi di contagio da covid in Giappone (compresi i settecento della Diamond Princess) e sono in aumento. Durante la conferenza stampa di martedì, anche il primo ministro Shinzo Abe ha definito quella attuale “la più grave crisi sin dalla Seconda guerra mondiale”. Già da tempo esperti e scienziati mostravano sui media giapponesi le curve di contagio in aumento, che come sappiamo sono il preludio di qualcosa di ben più serio. Eppure il governo centrale fino a una settimana fa continuava a escludere la possibilità di dichiarare l’emergenza. Poi, evidentemente, sono arrivati i numeri, e soprattutto quelli sulla capacità di resistenza delle strutture sanitarie. Il primo aprile scorso la Japanese Society of Intensive Care Medicine ha detto che i posti letto di terapia intensiva disponibili sull’intero territorio giapponese potrebbero non arrivare a mille. “Anche se la situazione attuale non ha ancora raggiunto il punto in cui il virus si diffonde in maniera rapida e a livello nazionale, abbiamo concluso che non è il momento di perdere tempo”, ha detto Abe in conferenza stampa. E ha aggiunto che in una megalopoli come Tokyo, dove ci sono attualmente circa milleduecento contagiati, si potrebbe arrivare facilmente a diecimila nelle prossime due settimane “se non riduciamo del settanta, ottanta per cento le interazioni umane”.

 

Il Giappone è stato uno dei primi paesi colpiti dall’epidemia di covid fuori dalla Cina. Prima c’è stato l’evento della Diamond Princess, la nave da crociera lasciata in quarantena al porto di Yokohama dove il contagio si è moltiplicato (probabilmente anche a causa di numerosi errori nel contenimento da parte delle autorità). Poi sono stati identificati alcuni focolai a Okinawa, cioè la prefettura più a sud dell’arcipelago giapponese, e nell’Hokkaido, la prefettura più a nord, tra le più colpite nelle settimane passate. Mentre l’Hokkaido riusciva a superare l’emergenza – con un vero lockdown imposto dal governatore indipendente Naomichi Suzuki, i focolai si spostavano in città ben più pericolose per movimenti e densità: Osaka e Tokyo. Ma nonostante tutti gli indicatori facessero pensare a una imminente esplosione di contagi, il governo ha continuato a rimandare una decisione importante. Richiesta perfino dalla governatrice di Tokyo Yuriko Koike, che già dalla fine di marzo ha invitato i cittadini della capitale di evitare di uscire di casa se non necessario.

 

All’inizio questo attendismo sembrava legato ai Giochi olimpici, una specie di negazione della realtà da parte del governo pur di andare avanti con il progetto di rilancio dell’immagine giapponese. Poi però, ben due settimane fa, il Comitato olimpico internazionale ha approvato il rinvio di un anno delle Olimpiadi. Oltre all’estrema burocrazia del sistema decisionale giapponese, c’è anche il fattore economico che potrebbe aver influito: i dati del pil sono i peggiori da cinque anni, e sui consumi pesa già il rialzo dell’Iva. La recessione è dietro l’angolo. Shinzo Abe è arrivato in conferenza stampa con un pacchetto di misure d’emergenza da mille miliardi di dollari, con 2.750 dollari da consegnare alle famiglie in difficoltà e ventimila dollari per le piccole imprese.

 

Secondo il Financial Times quello giapponese è un azzardo: a fronte dei soli 45 mila test per il covid effettuati finora, non è il modello sudcoreano che hanno seguito. E nemmeno quello cinese o di altri paesi europei, compresa l’Italia, perché la cauta emergenza dichiarata martedì nelle prime sette prefetture non è un lockdown, piuttosto consegna più poteri ai governi locali, che possono espropriare terreni e materiale sanitario ma non possono emettere sanzioni se qualcuno esce di casa. E questo perché la Costituzione giapponese, scritta nel Dopoguerra, limita e di molto la capacità del governo di imporre misure restrittive sulle libertà individuali. Inoltre la società giapponese è legata a una forma fisica del lavoro, tra timbri e fax, e quindi è molto più difficile imporre lo smart working alle aziende o peggio, alla Pubblica amministrazione.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.