Marine Le Pen alla manifestazione organizzata da Matteo Salvini a Milano sabato 18 maggio (foto LaPresse)

Manuale europeo di convivenza con gli euroscettici. Ce lo spiega lo storico Van Middelaar

Gregorio Sorgi

Per lo studioso olandese, grande esperto dell’Unione europea, l’ascesa del fronte populista è un dato di fatto, quindi tanto vale vedere il bicchiere mezzo pieno

Roma. “Sembrerà un paradosso, ma i populisti possono rafforzare il Parlamento europeo rendendolo uno spazio libero e pluralista”. Per Luuk Van Middelaar, storico olandese e grande esperto dell’Unione europea, l’ascesa degli euroscettici è un dato di fatto, quindi tanto vale vedere il bicchiere mezzo pieno. “E’ inutile essere allarmisti. Le elezioni del 26 maggio non saranno la fine della ‘civiltà europea’, come hanno suggerito alcuni osservatori un po’ troppo drammatici. I partiti euroscettici hanno già ottenuto grandi risultati in Francia e in Gran Bretagna alle scorse elezioni nel 2014, quindi oggi non possiamo stupirci più di tanto”.

 

A meno di clamorose sorprese, la maggioranza in Parlamento continuerà a essere composta da partiti europeisti. Dunque, quale sarà la novità di queste elezioni che si preannunciavano rivoluzionarie? “I popolari e socialisti avranno meno del 50 per cento dei seggi, quindi dovranno allargare l’alleanza ai liberali dell’Alde, forse anche ai Verdi. Ma la maggioranza resta centrista. Il cambiamento più interessante è avvenuto nel fronte populista. Cinque anni fa, Marine Le Pen e Nigel Farage andavano a Bruxelles per farsi pubblicità e per girare dei documentari su YouTube, ma non erano in grado di influenzare la politica europea. Oggi gli euroscettici di destra sono al governo e riescono ad averla vinta su alcuni temi, come l’immigrazione e le politiche di asilo. Il premier ungherese Viktor Orbán e il leader della Lega, Matteo Salvini, appartengono a una nuova generazione di populisti che vanno a Bruxelles per fare affari, e che fanno eleggere molti dei loro seguaci nelle istituzioni europee”.

 

A proposito di Orbán, uscirà dal Partito popolare europeo (Ppe) dopo le elezioni? “Secondo me non ha ancora deciso – spiega Van Middelaar – Lo scandalo che ha coinvolto il leader dell’Fpö, l’austriaco Heinz-Christian Strache, rende la sua permanenza nel Ppe più difficile. E’ fallito il modello di Sebastian Kurz di costruire un ponte tra la destra moderata e i populisti, e questo avrà delle ripercussione anche nel Ppe”. I popolari europei hanno sempre cercato una sintesi tra diverse culture politiche: con Orbán sono andati oltre il limite? “Penso di sì. Negli anni Novanta l'ex cancelliere tedesco Helmut Kohl ha voluto allargare l'alleanza anche ai partiti di centro-destra nell'est europa. Il suo ragionamento era: 'Non abbiamo unito l'Europa per fare vincere i socialisti'. Il problema è che la convergenza ideologica nel Ppe si è affievolita, e il caso Orbán ne è la prova. Il premier ungherese ha svilito la democrazia nel suo paese, ma alcune delle sue tesi, ad esempio sull'immigrazione, hanno una forte risonanza nella destra europea, e non sono necessariamente antidemocratiche”. 

 

Il giorno dopo le elezioni, inizierà la partita delle nomine. Il prossimo presidente della Commissione sarà uno dei candidati di punta? “E’ improbabile. Il Ppe sarà quasi sicuramente la prima alleanza in Parlamento, e il candidato Manfred Weber chiederà ai capi di stato di votare per lui. Ci sarà uno scontro tra il Parlamento europeo, che lo sosterrà, e il Consiglio europeo, che non vorrà avere alcun vincolo. Weber è molto penalizzato dalla mancanza di esperienza esecutiva: non ha mai svolto un incarico in un governo nazionale né in un consiglio regionale. I capi di stato fanno molta attenzione al profilo dei candidati, e al modo in cui hanno svolto la campagna elettorale, che nel caso di Weber non è stata entusiasmante. Il candidato dei socialisti, Frans Timmermans, ha qualche speranza in più: è stato il numero due della Commissione negli ultimi cinque anni, e ha già svolto il ruolo di ministro degli Esteri in Olanda”.

 

L’ultimo libro di Van Middelaar (“Alarums and Excursions”) racconta il dietro le quinte dell’ultimo decennio di crisi nell’Ue. Il docente era nello staff dell’ex presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, e ha seguito gli eventi da vicino. I protagonisti del libro sono i capi di governo degli stati membri, che determinano le sorti dell’Ue nel segreto dei summit. Si può dire che le elezioni nazionali sono più importanti delle elezioni europee? “Hanno la stessa importanza. Il voto nei singoli paesi avviene all’interno di uno spazio comune europeo, e ha un impatto enorme nella politica dell’Ue. Pensiamo alle elezioni italiane del 4 marzo e agli effetti che hanno avuto nei rapporti tra paesi europei. I capi di governo hanno il potere esecutivo, per usare le parole di Montesquieu, e sono loro che prendono le decisioni nei momenti di crisi”. Spesso non è facile trovare l’unità nei momenti di difficoltà, ogni paese pensa ai propri interessi e fa valere il diritto di veto. “Però siamo riusciti a tirare fuori il meglio nei momenti di difficoltà. Le sanzioni alla Russia sono state rinnovate ogni sei mesi negli ultimi cinque anni, malgrado le resistenze di alcuni stati membri, tra cui l’Italia. Il senso di emergenza ha dissuaso molti paesi a usare il proprio veto. Le proposte di Macron per un Rinascimento europeo verranno difficilmente realizzate, però il problema non è il veto dei piccoli paesi ma l’opposizione della Germania, spalleggiata dai paesi nordici. Francesi e tedeschi vanno d’accordo sulle politiche d’asilo, ma sono divisi sulla riforma dell’euro. Temo che sarà necessaria un’altra crisi economica per riformare la moneta unica. L’ultima volta è stata molto dolorosa, e lo so bene”.