(Foto LaPresse)

In Venezuela i militari non si decidono. Il perché sta (anche) a Cuba

Maurizio Stefanini

La partita venezuelana si gioca tra Washington, Mosca e l'Avana

Roma. “Pareggio tecnico”, dicono alcuni esperti cercando di sintetizzare la situazione del Venezuela. A Juan Guaidó, che ha chiamato allo sciopero generale dei dipendenti pubblici contro “l’usurpatore”, Nicolas Maduro ha risposto mostrandosi in una parata con alcune migliaia di soldati: un tentativo di smentire ogni dubbio sulla lealtà delle Forze armate cui Guaidó ha controrisposto esortando i suoi sostenitori a manifestare oggi davanti alle caserme, per invitare i militari a schierarsi “col popolo” e con l’Assemblea nazionale. Anche Leopoldo López, leader dell’opposizione assieme a Guaidó, dice che il regime di Maduro ha i giorni contati, anche se a far discutere non è quel che ha detto López ma da dove l’ha detto: si trova nell’ambasciata spagnola, di fatto rifugiato anche se insiste di non aver “chiesto asilo”. Per la Spagna è un bel problema, vista la cautela con cui il governo ha affrontato la crisi venezuelana: il ministro degli Esteri spagnolo Josep Borrell ha detto che il suo governo “limiterà” le attività politiche di López fin quando resterà suo ospite. “La Spagna non permetterà che la sua ambasciata si converta in un centro di attivismo politico”, ha avvertito. Naturalmente il pareggio tecnico non significa calma: l’Onu dice che i morti sono saliti a cinque (tre adolescenti), i feriti a 239 mentre gli arresti, secondo il Foro Penal, venezuelano sarebbero stati almeno 240.

 

Come accade da quando è iniziato questo confronto però buona della partita si gioca fuori dai confini venezuelani, come dimostra anche la telefonata di un’ora ieri tra Donald Trump, presidente americano, e Vladimir Putin, presidente russo: i due hanno parlato di molte cose, e anche di Venezuela, dopo gli scambi invero poco diplomatici tra i due paesi. Ma se da una parte la Russia lancia avvertimenti su possibili interventi in Venezuela, dall’altra gli Stati Uniti stanno agendo in particolare su due fronti. Mercoledì la Corte d’Appello del Distretto di Columbia ha stabilito che solo Guaidó può esercitare la rappresentanza legale del Venezuela in territorio statunitense: è una premessa per dare a Guaidó gli asset venezuelani che sono stati congelati negli Stati Uniti, compresa la potente compagnia di raffinazione e distribuzione di carburanti Citgo. E si può immaginare l’effetto, se Guaidó fosse messo in condizione di pagare ai dipendenti pubblici quegli stipendi che il governo di Maduro fa sempre più fatica a versare o versa in moneta svalutata.

 

Il secondo fronte è Cuba, indicata all’origine della linea dura di Maduro. In particolare, sono sempre più massicce le testimonianze sui cubani che si sarebbero infiltrati un po’ dappertutto negli uffici pubblici venezuelani. La presenza di militari cubani in uniforme venezuelana e armati è vista come la ragione principale per cui l’ammutinamento degli uomini in divisa non c’è ancora stato, anche se a loro volta soffrono le stesse penurie della popolazione. L’Amministrazione Trump ha promesso apertura se Cuba collabora a uno sbocco in Venezuela e invece un “embargo totale” in caso differente. Misure concrete sono state già prese, e il 2 maggio non è stata rinnovata la sospensione di quel Titolo III della Legge Helms-Burton del 1996 che permetterebbe ai cittadini statunitensi di fare causa a società straniere beneficiarie di asset che Cuba nazionalizzò dopo la Rivoluzione del 1959 e che era stata però congelata per evitare guerre commerciali con società europee oggi spesso a capo di quegli asset. L’Alto rappresentate della diplomazia europea, Federica Mogherini, ha subito protestato, minacciando ricorsi alla Wto. Nell’immediato piuttosto che rafforzare la stretta su Maduro la mossa rischia di allentarla, facendo scontrare Washington e Bruxelles.

 

Il regime cubano è preoccupato: già da aprile Raúl Castro ha chiamato a risparmiare energia e combustibile per “affrontare la peggiore variante”, cioè l’embargo totale americano, e anche il venir meno dell’asse economico privilegiato che con Chávez e Maduro ha rappresentato l’8 per cento del pil ed ha rifornito l’isola di petrolio praticamente gratis. Ridotta già da 100.000 a 40.000 barili al giorno, questa “somministrazione” è stata ora colpita da un embargo contro quattro società italiane e liberiane e nove petroliere (di Grecia, Italia, Panama e Makta) che la effettuavano. Leopoldo Cintra Frías, ministro delle Forze armate rivoluzionarie, ha detto in tv ai cittadini che stante la mancanza di altre fonti proteiche dovranno abituarsi a mangiare carne “di coccodrillo, di struzzo e di jutía”, un roditore simile allo scoiattolo e caratteristico dell’isola.

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