Alcuni sostenitori della Brexit chiedono di lasciare l'Ue senza un accordo (Foto LaPresse)

Brexit, un gioco con 4 finali

Giorgio Gilestro

Tutti si chiedono come andrà a finire il divorzio del secolo: la percezione è ancora, dopo anni, tutta diversa tra i pentiti e i “brexitteri” (moschettieri dell’uscita)

Uno degli aspetti più interessanti dell’attuale scenario politico mondiale è l’apparente rinegoziazione della definizione di verità fattuale. Nell’universo delle fake news, i fatti, anche quelli più evidenti, misurabili e misurati, sembrano aver perso oggettività ed essere diventati parte integrante della prospettiva politica. In realtà, chiunque abbia mai partecipato anche solo a una manifestazione in piazza sa che la politica ha sempre giocato sulla ambiguità che inesorabilmente ruota intorno ai fatti: mille secondo gli organizzatori e cento secondo la questura.

 

Noi italiani, nel nostro proverbiale disfattismo, abbiamo forse sempre pensato che la distorsione evidente e petulante della realtà fosse una nostra prerogativa, invidiando il celebre pragmatismo ed empirismo delle società anglosassoni. Se c’è un aspetto che l’attuale corrente populista dovrebbe quindi averci insegnato è che, quando si tratta di politica, tutto il mondo è paese. Una misera consolazione. Con tutti i caveat che ho appena esposto sulla obiettività dei fatti, mi azzarderò a considerare ormai palese anche per gli osservatori meno attenti che l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea non stia andando secondo i piani. Per i fautori ancora molto numerosi della Brexit, il motivo principale di questa deviazione infausta è da attribuirsi al fatto che nemmeno l’attuale primo ministro creda abbastanza alla Brexit. Durante la campagna referendaria, Theresa May aveva sostenuto attivamente la fazione opposta, quindi le sue credenziali non sono cristalline. Se la May avesse avesse avuto più fiducia nella Brexit – dicono – la situazione ora sarebbe molto diversa.

Giorgio Gilestro è docente presso il Department of Life Sciences dell’Imperial College London. 

 

Ma che cosa vuol dire credere nella Brexit? Ha senso, nell’epoca contemporanea, “avere fede” in un progetto politico? Per capire cosa vuol dire credere nella Brexit bisogna fare un passo indietro e analizzare quali sono le tre componenti che legano uno stato membro all’Unione europea: la rappresentanza politica (l’adesione al Parlamento europeo), l’appartenenza a una unione doganale e l’accesso al cosiddetto mercato unico. Il quesito referendario chiedeva ai cittadini se avessero intenzione di rinunciare e allontanarsi dal primo di questi tre pilastri (“Leave the EU”) senza nulla dire sugli altri due, sebbene sia proprio su quei due aspetti che verte tutta la questione. Questa incompletezza dei termini è il primo problema fondamentale del Brexit.

 

La domanda di fondo dal referendum a oggi è stata: è un bene per il Regno Unito abbandonare l’unione doganale e il mercato unico? Anche i più ferventi “brexittieri” (come vengono chiamati qui, in un portmanteau tra Brexit e moschettieri) riconoscono che l’unione doganale e l’accesso al mercato unico hanno alcuni aspetti molto positivi che vorrebbero mantenere, rinunciando volentieri ad altri che ritengono negativi e che vorrebbero quindi lasciar andare. L’Unione europea ritiene che i due pacchetti non siano divisibili e non è disposta a offrire versioni ridotte e smantellate dell’uno o dell’altro: o si prende tutto, o niente. La Brexit “con accordo” è quello in cui il Regno Unito riesce a mantenere accesso ad almeno alcune delle componenti dei due pacchetti, mentre la Brexit “senza accordo” è quello in cui il Regno Unito esce da tutti e tre i componenti. Il perno su cui tutto ruota, quindi, è il seguente: chi ha più da perdere da una Brexit senza accordo? Il Regno Unito o l’Unione europea?

 

Rispondere a questa domanda chiarisce chi delle due parti gode della posizione dominante nella negoziazione. Credere nella Brexit vuol dire credere che tra i due sarà il Regno di Sua Maestà ad avere la meglio. Tra gli economisti e gli scienziati politici c’è un enorme consenso sul fatto che una Brexit senza accordo metterebbe in ginocchio il Regno Unito, portando probabilmente una recessione mai vista prima nella storia moderna. I brexittieri, ovviamente, dicono che queste previsioni non sono un fatto di scienza, ma una interpretazione politica slegata dalla realtà (viene spesso ripetuto che questo diffuso scetticismo verso gli esperti sia un fenomeno nuovo, ma chiunque abbia letto le disgrazie di Cassandra descritte da Omero sa che non è esattamente così). L’intero dibattito politico degli ultimi quattro anni verte intorno a questo concetto, ed è palese che questa differenza di interpretazione è il secondo problema della Brexit.

 

L’Unione europea si è schierata dal lato degli esperti, non avendo concesso nemmeno una virgola al tavolo delle negoziazioni. Anche Theresa May ha fatto segretamente la stessa scelta, avendo ceduto, finora, su ogni singola richiesta. Un aspetto importante è che se si accetta di schierarsi dal lato degli esperti, convenendo cioè che un’uscita senza accordo sarà disastrosa per il Regno Unito, allora la questione diventa molto più prevedibile e in un certo senso rassicurante nei suoi sviluppi.

 

La domanda referendaria non comprendeva due quesiti che sono emersi dopo. I problemi dell’estensione temporale

Visti in questa ottica, quali sono gli sviluppi futuri alla luce del recente fallimento dell’accordo proposto? Le opzioni sono sostanzialmente quattro. 1: chiedere all’Ue di estendere il limbo corrente, spostando l’uscita a una data futura; 2: cancellare tutto con la coda tra le gambe; 3: provare a rinegoziare un nuovo accordo; 4: uscire senza accordo il 30 marzo. Prescindendo dalla volontà politica, alcune opzioni hanno complicazioni tecniche. Il problema di una estensione è che andrebbe ad accavallarsi con le elezioni per il Parlamento Europeo a maggio, con insediamento a luglio. La prima scelta da compiere, quindi non è l’estensione in sé, ma se il Regno Unito abbia o no desiderio di prendere parte alle prossime europee (al momento ne sono fuori).

 

Questa è una decisione fondamentale perché la prossima data utile per rientrare a far parte del Parlamento europeo sarebbe altrimenti il 2024 e, se anche il Regno Unito decidesse fra qualche mese di cancellare tutto, si ritroverebbe comunque esclusa dai tavoli politici di Bruxelles per i prossimi cinque anni. La seconda opzione, cancellare tutto, è la preferita di chi è contrario alla Brexit ma politicamente appare una strada molto complicata, un po’ per chiari motivi di orgoglio e in parte perché la Corte europea di giustizia ha concluso che la cancellazione deve essere definitiva e in buona fede. In sostanza, il Regno Unito dovrebbe garantire di non voler ricominciare lo stesso circo fra qualche anno. Il discorso giuridico su come questa garanzia possa essere presentata non esiste, perché non è stato affrontato, ma probabilmente richiederebbe un altro referendum, con tempistiche che andrebbero ben oltre luglio.

 

Le ultime due opzioni (nuovo accordo o no accordo) sono quelle che scopriranno le carte, chiarendo se c’è un bluff in questa partita: l’Ue dichiara di non avere nessuna intenzione di rinegoziare, mentre il Regno Unito dichiara di non avere nessuna paura a uscire senza accordo. Il lato positivo è che il termine si avvicina e, almeno in principio, il 30 marzo potremmo scoprire chi delle due fazioni aveva ragione. Arriva il momento della verità: con l’attuale scenario, visti i tempi, sembra che sarà comunque impossibile per il Regno Unito fare parte dell’Unione europea nei prossimi cinque anni. Se il non accordo si rivelerà nefasto per il Regno Unito come sostengono tutti gli esperti, gli inglesi si ritroveranno con una sola opzione possibile: l’opzione “Canossa” in cui il Regno Unito implorerà di poter tornare con un accordo tipo Norvegia. La sconfitta più umiliante per i brexittieri e i populisti. Forse quella di cui abbiamo bisogno per il bene comune.

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