Peter Mandelson (foto LaPresse)

Per chi suona la Brexit

David Allegranti

Peter Mandelson ci spiega perché Theresa May e Jeremy Corbyn sono due leader alla deriva

Roma. L’orologio della Brexit ticchetta ma il tempo non scorre nella direzione auspicata dai seguaci del Leave. Peter Mandelson, architetto del Labour ai tempi di Tony Blair, dice di “dubitare molto” che il prossimo 29 marzo la Brexit effettivamente si verificherà. Lo spettro del “no deal” – l’uscita secca dall’Unione ma senza un accordo commerciale – vaga comunque per le stanze del numero 10 di Downing Street. L’ultima volta che il Foglio lo aveva sentito, nel maggio 2017, Lord Mandelson intravedeva l’Opa ostile lanciata dalla May al Labour, il tentativo di capitalizzare il voto sulla Brexit “per rafforzare il suo appeal nazionalistico agli occhi di quegli elettori che hanno votato in precedenza Ukip”. Nonché – spiega Mandelson – il tentativo di “conquistare gli elettori tradizionali del Labour” con la promessa del più grande allargamento dei diritti e delle protezioni sociali per i lavoratori dipendenti mai fatto prima da un governo conservatore. Altri tempi.

 

Tutto questo, infatti, è stato spazzato dal voto contrario in Parlamento del 15 gennaio scorso, con 432 no all’accordo di Theresa May con l’Unione europea e 202 sì. Per Mandelson, adesso “Theresa May di fatto non ha più una strategia. Sta giocando col tempo mentre aspetta che il Parlamento e l’Unione europea le impongano una soluzione. Non vuole prendere le distanze dalla destra del partito conservatore anche se lei sa che è in minoranza. Allo stesso tempo, non vuole allinearsi con chi cerca un compromesso perché non vuole essere accusata di tradimento sulla Brexit. La May non ha più alcun controllo sugli avvenimenti. E’ al governo, ma non al potere”.

 

La settimana scorsa è sopravvissuta al voto di sfiducia, riuscirà a resistere anche in seguito? Semplicemente, dice Mandelson, “la May verrà sfiduciata quando sarà più conveniente per il partito conservatore”. Lo ha detto anche il politologo Matthew Flinders al Foglio la settimana scorsa: “Nessuno nel partito conservatore vuole il suo posto al momento”.

Questo significa che il destino di Theresa May è in altre mani, sicuramente non le sue. Impossibile non chiedere a Mandelson che cosa pensi di un eventuale secondo referendum. “Il People’s Vote sulla Brexit è possibile e desiderabile. I leader conservatori e laburisti non vogliono fare la prima mossa sul secondo referendum perché lo hanno escluso in precedenza. Entrambi sarebbero più contenti se questa evenienza gli venisse imposta dal Parlamento”.

 

Tuttavia nel Labour si comincia a discutere. Forse però è tutta tattica interna al partito di Jeremy Corbyn, forse anche da parte dello stesso leader. “Corbyn vuole andare alle elezioni e vede il secondo referendum come un possibile ostacolo alla sua strategia. Corbyn, come la May, dovrà schierarsi per il Leave o per il Remain in un ipotetico secondo referendum, però lui cerca il consenso di entrambi i gruppi. Questo non è fattibile”. Insomma, alla fine il dilemma di Corbyn, prigioniero di se stesso oltre che degli eventi, andrà sciolto. Il problema, come rilevava ieri Robert Shrimsley sul Financial times, è che per sua sventura in questo tempo di estremo bisogno, la Gran Bretagna è stata colpita da “due delle più inflessibili, meschine, partigiane e inette figure” che abbiano mai conquistato la leadership dei due partiti maggiori.

 

“Il Regno Unito ha avuto cattivi leader di partito in passato – scrive Shrimsley – ma finora è stato abbastanza intelligente da non averli in contemporanea”. Dopo la bocciatura del “deal” in Parlamento, appare chiaro che May non ha alcun piano B. Come dice Mandelson al Foglio, non ha appunto alcuna strategia. Non che Corbyn ne abbia una migliore d’altronde. Finora, scrive il Ft, il leader laburista, ha scansato tutte le responsabilità per la Brexit, “senza fare nulla per impedirla e aspettando la possibilità di rovesciare il governo”. Corbyn, con questo attendismo, non ha dimostrato grandi doti di leadership. Sia lui sia May, insomma, sembrano lasciarsi portare dalla corrente degli eventi anziché governarli.

Di più su questi argomenti:
  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.