Il murales di Banksy davanti allo sbarco del traghetto a Dover 

Sul confine della Brexit. Racconti da Dover

Luciana Grosso

Chiacchiere dal porto britannico più vicino all'Europa dove è molto chiaro come due minuti possono cambiarti la vita

C’è un pezzo di Francia, in Inghilterra: non è granché, ma si nota. È un gabbiotto mezzo in disarmo e mezzo dimenticato che si trova dentro il perimetro del porto di Dover, a pochi metri dalle famose scogliere che, dall’inizio del tempo, fanno la guardia al Regno, invalicabili e minacciose. Da circa vent’anni, però, né le scogliere né il gabbiotto francese servono più a niente, perché non c’è più nessun confine cui fare la guardia, così le scogliere prendono il sole, quando c’è, e la sbarra francese è sempre alzata e lascia passare migliaia di camion al giorno.

 

Con l’arrivo della Brexit, se mai arriverà e chissà in che forma, le cose cambieranno, i confini torneranno rilevanti e con essi le sbarre, i passaporti, i controlli, le soste, le attese, i camion con il motore in folle per ore. “Da qui, se vuole può andare in Francia a piedi. Ci metterà meno di un minuto”, dice sarcastica Justine che, cordiale e sorridente, ci fa da guida al porto e che dal parcheggio degli uffici indica l’avamposto dei francesi di fronte al quale due agenti della Gendarmerie ciondolano senza far niente che non sia battere i piedi per il freddo.

 

Le operazioni di sbarco, oggi che non ci sono controlli, richiedono 4 minuti. In 7 minuti i tir raggiungono l’autostrada verso nord 

Eppure, tra non molto, la quiete finirà e a questo valico di frontiera dove oggi nessuno ha davvero niente da fare, dal prossimo marzo, sorgerà uno dei confini più trafficati e di più difficile gestione di tutta Europa. Per dare un’idea delle dimensioni del traffico di Dover basti sapere che si tratta, già oggi, del porto più importante d’Inghilterra dal quale passano ogni anno 2 milioni e 600 mila camion, il che significa settemila al giorno (con picchi di diecimila) che per il 99 per cento trasportano merce europea (dunque libera da controlli) e il 17 per cento di tutte le transazioni del Regno, per un valore complessivo di stimato 122 miliardi di sterline.  

 

Un via vai continuo e, per fortuna di tutti, velocissimo: Dover è un porto Ro-Ro, cioè Roll-on/Roll-off dal quale, per dirla in termini molto prosaici, le merci “rotolano via”. Significa che, a differenza di quel che accade in altri porti, come è per esempio Rotterdam, qui non arrivano gigantesche navi portacontainer ma, con cadenza oraria, agili traghetti che attraversano la Manica in un’ora e trasportano i camion tutti interi dalla Francia all’Isola e viceversa. I camionisti che li guidano (ai quali va un sincero encomio per l’abilità di guidare su due lati diversi) semplicemente scendono dal traghetto e sciamano per le strade del Regno o di Francia, a seconda della direzione.

 

Tutta questa operazione di sbarco, oggi che non ci sono controlli e non esistono frontiere, richiede un tempo stimato di circa 4 minuti. In circa 7 minuti i camion raggiungono l’autostrada diretti verso Londra e verso il nord della Gran Bretagna. L’estrema velocità della pratica ha fatto sì che, negli anni, Dover diventasse porto di elezione per merci da portare in fretta, come cibo e farmaci, capi di bestiame, o pezzi per filiere impazienti, come quelle delle auto o dell’informatica o, peggio ancora, per i trasporti dei corrieri e dell’e-commerce.

 

Le "bianche scogliere" di Dover


 

Con la Brexit, inevitabilmente, tutto si farà più complesso e, dal versante francese della Manica stimano che un aumento del tempo medio necessario di soli due minuti potrebbe portare a ingorghi stradali e code quotidiane di una lunghezza media di circa 25 chilometri sia a Dover sia a Calais. Ma si tratta di una stima visto che nessuno, ancora, sa né come funzionerà la Brexit né come funzioneranno le cose a Dover.

 

Il responsabile delle operazioni Brexit del porto, Tim Reardon, ci riceve nel suo ufficio ordinato dalle cui finestre si abbraccia con lo sguardo tutto il porto e ci conferma: “È tutto qui – dice indicando le ridottissime dimensioni del porto: tre banchine, qualche palazzina di uffici, i posti di polizia di frontiera e lo svincolo che conduce alla tangenziale – L’obiettivo è di continuare a mantenere i tempi veloci come sono ora, o di prolungarli del minimo indispensabile”, dice con un garbo affettato. Sì, ma come? “A oggi non abbiamo ancora informazioni chiave per capire come fare, ma il nostro lavoro è quello di risolvere i problemi quando si presentano”, continua con un garbo che inizia a farsi tracotanza. Sì, insistiamo, ma come? “E’ il nostro lavoro”. Così ci prendiamo la libertà di tradurre le sue parole con un obliquo: non ne ho la più pallida idea, ma in qualche modo faremo. Il suo sincero e concreto, anche se un po’ vago, ottimismo non trova però conferma nelle stime presentate dal governo che dicono che Dover non è pronta a trasformarsi da semplice sbarco in confine.

 

Qui gli antieuropeisti sono maggioranza e ancora oggi rivendicano la loro scelta, nonostante i disagi imminenti

L’ipotesi più semplice, ossia quella di ampliare il porto, aumentando il numero di banchine e porte di accesso è tecnicamente impossibile, perché il porto è incastrato tra la città, alla sua destra, e le famose “bianche scogliere” a sinistra. Quindi almeno per ora, quello è e quello rimane, anche se esiste l’ipotesi di spostarlo sul lato ovest della città, che affaccia sul mare aperto e che oggi è occupato dal porto turistico. Un’altra ipotesi, più percorribile, è la cosiddetta Operation Brock, che prevede di trasformare un vicino pezzo di autostrada in un enorme parcheggio per camion: lì i veicoli potrebbero aspettare di essere ispezionati e controllati, senza bisogno di bloccare il porto, anche se comunque non si risolverebbe il problema della deperibilità delle merci.

 

Eppure, nonostante lo tsunami di camion, inquinamento e traffico che rischia di abbattersi sulla città e sui suoi dintorni, a Dover il leave è andato fortissimo (62 per cento) e il giorno dell’attivazione dell’articolo 50, il quotidiano brexitaro Sun ha proiettato sulla bianca parete delle scogliere una gigantesca scritta “See EU”. Detto questo, al di là dei numeri e della propaganda, che da queste parti di Europa non vogliano neppure sentir parlare si percepisce sulla pelle. I baracchini dei Kebab si chiamano “Europe”, gli stranieri, specie se di pelle scura, sono tenuti piuttosto lontano (del resto questo è stato per anni lo sbarco per elezione dei profughi della giungla di Calais) e persino quando ci presentiamo come giornalisti italiani ci sentiamo rispondere: “E voi? Quand’è che vi decidete a uscire dall’Europa?”. Abbiamo un bel dire a rispondere che per quel che ci riguarda anche mai e, anzi, speriamo che a qualcuno non venga questa brillante idea. Ma le nostre parole vengono scacciate via con lo stesso gesto con cui si scacciano le mosche, come a liquidarci come velleitarie anime belle.

 

Ma forse, di tutta questa diffidenza e di questa passione per i confini non c’è da stupirsi troppo, visto che chi, per sorte e geografia, ai confini ci abita sopra tende a volerli chiusi e controllati, whatever it takes, invece che aperti e permeabili. E pazienza se la Brexit porterà caos, traffico e ritardi. Amen. Meglio una fila di venti chilometri che “gli europei” in giro. “Dover – racconta Chris Precious, che della città è stato sindaco laburista per vent’anni e che ora fa il pensionato e il punto di riferimento per i remainers e i corbyniani della città – ha votato compatta per il leave, ma pagherà più del resto dell’Inghilterra, in termini di disordine, di problemi, di traffico. E anche di immigrazione, il che è un paradosso visto che chi ha scelto il leave si è fatto dettare il voto proprio dalla volontà di fermare gli arrivi di stranieri. Ma, da questo punto di vista, andarsene dall’Europa non servirà a niente. Anzi: peggiorerà le cose. Prima almeno l’immigrazione era un problema comune. Ora no, ora siamo soli e disarmati. La guardia costiera inglese ha solo due barche per controllare tutto il confine sud, il che significa che la costa è completamente accessibile da chiunque, sia clandestini sia merci di contrabbando”.

 

Una delle esponenti locali del fronte pro Brexit e (anche se ora ne è uscita) dell’Ukip, il partito indipendentista inglese, Georgette Rapley, ci spiega con lo stesso fervore due tesi in completa antitesi, delle quali però è egualmente convinta. Prima ci racconta quanto innaturale, sbagliata e strampalata sia l’idea di un’Unione di stati che non hanno niente in comune se non l’essere collocati sullo stesso continente. Poi però ci dice che la gestione del nuovo confine qui a Dover sarà un incubo (anche se, ovvio, dice che ne varrà la pena).

 

“Se c’è un incidente qualsiasi al porto o sulla tangenziale rimaniamo chiusi dentro. A Dover c’è una sola strada per entrare e uscire dalla città. Se si blocca quella non c’è niente da fare per ore”. E poi, con la stessa furia e con un solo sorso di tè a fare da intercapedine tra un argomento e l’altro, continua: “Non vogliamo essere governati da persone lontane che dal Belgio pretendono di decidere per noi – dice sfoderando una dialettica e una serie di argomenti che fanno tanto 2016 – Oggi chiunque in Europa può venire da noi e godere dei nostri servizi e benefici. Arrivano dalla Polonia o dalla Romania o dalla Croazia senza visto, solo con un volo low cost e si siedono davanti al comune: chiedono da mangiare e il sussidio, anche se non hanno mai lavorato un giorno in vita loro. E bisogna darglielo, perché ne hanno diritto perché sono europei. Questa Europa non solo non la vogliamo, ma è proprio sbagliata”.

 

A sentirsela raccontare così, dalla distinta Georgette che è proprio simpatica, viene quasi da darle ragione o almeno da capirla. E ci si chiede come abbia potuto l’Europa essere così sciocca e pigra da raccontarsi non come un’architettura istituzionale al limite dell’utopia, forte di settant’anni di pace e di un mercato unico enorme e ricchissimo, ma come una accozzaglia di scrocconi di quelle che è meglio perdere che trovare. Verrebbe da rispondere a Georgette che le cose sono più ampie e complesse di come le racconta lei, e che l’unione fa la forza, e che Ue significa tante belle cose, come diritti, progresso, lavoro. Ma alla fine lasciamo perdere. Cosa l’Inghilterra, Dover e Georgette pensino di diritti, progresso e lavoro europei lo ha hanno già detto piuttosto chiaro. E, quanto al resto, ci fa sentire un po’ sciocchi brandire, come grande argomento europeista, il fatto che di lì a poco ci sarà la fila dei camion.

 

Così lasciamo perdere e le auguriamo buona fortuna. A lei, a Dover e a quelle bianche scogliere richiamate in fretta e furia dalla pensione per rivestire i loro lisi panni di guardiane del Regno con la sola compagnia, dal lato opposto della città, del muro dipinto da Bansky che raffigura un operaio impegnato a scolpire via una stella da una bandiera europea, ma il cui martello crea una profonda crepa che ne solca il fondo blu e lo rende inevitabilmente più fragile.

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