I gillet gialli hanno protestato contro l'aumento del prezzo del petrolio proposto dal presidente francese Emmanuel Macron (Foto LaPresse)

Meglio 5 stelle che un milione di gilet gialli

Giuliano Ferrara

Macron ha detto né destra né sinistra e si trova contro scarti di due frattaglie. Noi siamo stati più fortunati: la rogna ha attecchito senza resistenza, con idiozie ma senza gilet

In un certo senso, mirabile a dirsi, siamo stati fortunati. Da noi la rogna ha attecchito senza resistenza. E fu subito governo, la manovra in brodo di giuggiole, compromesso, trattativa, toni alti, porti chiusi, stalle fiscali, piscine di campagna terrafuochesche, condoni, babypensionamenti, idiozie a schiovere, cose orrende ma in confronto tutto sommato melassose e gassose come ci si addice.

 

Non c’è stato bisogno di inventare il gilet jaune, cioè di aprire il portabagagli del Suv e trovarci dentro il primo simbolo rivoltoso catarifrangente, per indossarlo e sentirsi popolo in nome di un corpetto che è compagno di giacenza del crick e del triangolo luminoso anti-incidenti, una vera genialata di quelle che riscattano per sempre, nella loro suprema bassezza iconografica, le bandiere rosse, forse anche i simboli dei neri, le insegne gloriose della pirateria marittima col teschio, perfino le bandiere di Forza Italia e naturalmente gli Alberti Giussaneschi e le Cinque stelle.

 

Non fu di necessità un’epidemia di oppiacei nelle terre rugginose della deindustrializzazione, come per la vittoria del modello Trump; o 64.000, sessantaquattromila, omicidi come per il dilagare del bolsonarismo nel carnevale di sangue della bossanova. Né abbiamo dovuto subire l’onta di una forma di lotta da classe media radicalizzata e motorizzata, il blocco stradale e la paralisi premeditata ai crocevia, senza un gruppo dirigente, senza portavoce, per un obiettivo ridicolo: per nostra informazione, si sappia che il costo del carburante (e viva il diesel, a me carissimo) tende a divenire inferiore (è questione di giorni) a quello che era prima della jacquerie dei piccolissimi borghesi della France périferique, di quei bastardi plaudenti che per qualche centesimo al litro hanno messo a ferro e fuoco Parigi, assaltato ed espugnato le prefetture, terrorizzato gente comune e poliziotti assediati nei commissariati, scatenato una sindrome secessionista e anarchica sfregiando i simboli della più antica Repubblica d’Europa (a parte la Svizzera, che non conobbe monarchia).

 

Da noi sono bastati il vaffanculo di un comico televisivo, una società privata di consulting in rete ispirata a Rousseau (ah, Rousseau, quanti delitti in tuo nome), il più antico e ormai blasonato partito italiano (la Lega) e il contorno raccontato ieri da Cundari di una koinè populista dilagata per almeno due decenni su ogni pagina di giornale, in ogni libreria, dovunque nello splendore dei diciotto pollici e nei talk-shit. La rivoluzione impossibile del missiroliano “ci conosciamo tutti” (mi permetto di correggere il direttore che tirò in ballo un incolpevole Flaiano).

 

La Francia ha un’anima antisistema che non prescinde da quaranta re, uno dei quali decapitato con la moglie, e da una geografia che sembra fatta apposta non per mischiare e sciogliere, per quello servono storiografi e miti, ma per disintegrare, basta leggere l’immenso Tableau de la France di Michelet. Noi siamo paesaggistici, abbiamo nulla di continentale, mari e fiumi sono laghetti e pisciatine, non dobbiamo contemperare grandi confini con grandi nazioni e oceano Atlantico con Mediterraneo. Contentiamoci, per adesso. Dobbiamo liberarci da un accesso di demenza e per la bisogna abbiamo tutto sommato gli anticorpi, almeno si spera.

 

Macron ha issato la bandiera dell’Europa, e gli hanno risposto con il quaranta per cento al primo turno diviso tra maduristi e fascisti vecchio e nuovo stile, e lì nasce la convergenza delle lotte attuali tra teppisti di destra e di sinistra, spinti e protetti da folle d’opinione e cittadini ingilettati consenzienti. Macron ha detto né destra né sinistra, e si trova contro gli scarti di ambedue le frattaglie. Ha detto società aperta e lavoro mobile e tecnologia, è diventato il presidente dei ricchi. Poi ha promosso le tasse ecologiche, essendo l’ecologia l’ultimo rifugio della follia la più illuminata, e non ha tenuto conto della ossessione contro quel tipo di fiscalità che già si era mostrata in Bretagna con i bonnet rouge nel 2013, ben altro simbolo, comunque, degno degli ex vandeani, che erano resistenti alla Rivoluzione e non automobilisti in foia.

 

Ha detto delle forti verità sociali sui gallici e sui pigri, gli imputano il disprezzo del popolino comune perché desiderano essere coccolati dal potere, magari in compagnia degli intellettuali identitari che si sono già accodati, e per questa mancanza di riguardo mettono a fuoco le sue sedi e le sue truppe e i quartieri. Via. Aspettando l’evoluzione delle cose, e con molto disappunto per quel movimento che celebra il cinquantesimo del 1968 con le stesse barricate ma dietro le barricate niente, per ora contentiamoci. Dessous les pavés c’est la plage, si cantava. Sotto il pavé c’è un bel Suv, si gargarizza.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.