Lo skyline di Detroit

Dalle città del Midwest arriva la più grande delusione per Trump

Giuseppe Berta

La promessa trumpista di recuperare la produzione auto e industriale non ha portato un voto a Detroit e nei sobborghi

L’America è divisa, hanno scritto unanimemente i commentatori all’indomani delle elezioni di Midterm. E’ un dato di fatto indiscutibile, a patto di aggiungere che le divisioni sono segnate da molteplici linee di frattura, che a volte si intersecano e a volte no. In particolare, le contrapposizioni che il voto del 6 novembre rivela non sono già più quelle che erano state enfatizzate all’indomani del successo di Donald Trump alle presidenziali di due anni fa. Allora, una delle chiavi di lettura più sfruttate fu quella che poneva in risalto il divario apertosi fra chi aveva tratto beneficio dalla globalizzazione e chi invece era convinto di esserne stato penalizzato. Di qui l’insistenza sul suffragio dei “forgotten men”, che avevano manifestato la loro disaffezione contro l’élite democratica accusata di globalismo e di indifferenza verso le fasce sociali deboli. Di qui anche i fiumi d’inchiostro versati sulla disaffezione della classe operaia, ormai conquistata al voto di protesta, soprattutto nelle terre della Rust Belt, del Midwest della deindustrializzazione massiccia, con decenni di declino alle spalle. Tanto più che Trump, dalla sua elezione in poi, ha cercato di dare seguito alla promessa di riportare l’industria in America, proprio dove i suoi organici si sono più assottigliati. Anche al prezzo di qualche attrito con l’industria dell’auto, a dir poco riluttante a rivedere le proprie catene internazionali del valore.

 

Da questo punto di vista, i risultati di Midterm sono stati deludenti per Trump e i repubblicani. Prendiamo il caso del Michigan, uno degli stati che a sorpresa due anni fa avevano premiato Trump. In realtà, l’indebolimento dei democratici veniva da più lontano, considerato che lo stato era già allora retto da un governatore repubblicano. Ora al suo posto ci sarà una democratica, Gretchen Whitmer, che peraltro dovrà misurarsi con la maggioranza repubblicana che ancora esiste nel parlamentino di Lansing, la capitale del Michigan.

 

Nelle elezioni per il Congresso, ha fatto scalpore, sulla stampa nazionale e internazionale, il successo di Rashida Tlaib, la figlia di immigrati palestinesi che si è imposta nel tredicesimo distretto, quello di Detroit, dove la candidata democratica non aveva avversari. Ma la rimonta dei democratici appare cospicua un po’ ovunque: per esempio a Dearborn, il sobborgo dove nacque e visse Henry Ford, che impresse il proprio segno su quasi tutto, la democratica Debbie Dingell ha prevalso col 69 per cento dei voti contro l’esiguo 28 raccolto dallo sfidante repubblicano. L’undicesimo distretto, dove l’orientamento repubblicano era tradizionalmente forte e ben radicato, ha visto la vittoria del democratico Haley Stevens, che aveva coordinato lo staff della task force nominata da Obama per il salvataggio dell’industria dell’auto, sulla rappresentante uscente, espressione del mondo del business, Lena Epstein. Infine, la senatrice democratica Debbie Stabenow è stata rieletta con facilità.

 

A giudicare dalle cifre, non sembra che l’impegno della Casa Bianca per riportare nei luoghi d’origine la produzione automobilistica sia riuscito a guadagnare consensi. Il Michigan torna a preferire i democratici. Dunque, la protesta dei “left behind”, di coloro che la globalizzazione ha lasciato indietro, si è già esaurita? Dobbiamo valutare il voto del Michigan come un segno ulteriore della volatilità dell’elettorato?

 

“A confrontare i risultati di oggi con quelli del 2016, la sconfitta democratica di allora non riguarda i “dimenticati dalla globalizzazione”
ma gli errori marchiani della campagna elettorale di Clinton.
Trump ha sfruttato i punti deboli con scarsi risultati.
Il “microtargeting” democratico non basta a sfidarlo”  

 

Non proprio perché, a guardar bene dentro i numeri, si dovrebbe concludere che il risultato del 2016 a favore di Trump è probabilmente da ascrivere a una combinazione particolare. Anzitutto, Trump si era aggiudicato il voto del Michigan con un margine pari allo 0,3 per cento, cioè con un vantaggio di meno di 11 mila suffragi. Ma l’area di Detroit (la Wayne County) si era schierata compattamente, nonostante tutto, a favore di Hillary Clinton, che aveva ottenuto il 66,7 per cento dei voti contro il 29,4 di Trump.

 

Effetto del voto afroamericano, si dirà, vista la composizione etnica di Detroit, col predominio della popolazione di colore. Certo, ma anche nelle altre aree metropolitane importanti del Midwest la maggioranza degli elettori aveva scelto la candidata democratica, a Cleveland (Ohio) come a Milwaukee (Wisconsin) come persino a Indianapolis, capitale dell’Indiana, lo stato che aveva come governatore il futuro vicepresidente Mike Pence. Il divario politico fra la città e i borghi era già istituzionalizzato. A confrontare i risultati di oggi con quelli del 2016, viene da dire che la sconfitta democratica di allora è da ascrivere agli errori marchiani della campagna elettorale di Hillary Clinton, che non suscitò la partecipazione del suo elettorato di riferimento. D’altronde, in quelle zone era stato Bernie Sanders a vincere le primarie e lo staff di Clinton con tutta evidenza sottovalutò i segnali che gli erano stati mandati. Ora invece la ripresa dei democratici si fonda proprio sulla metabolizzazione degli impulsi di rinnovamento che hanno acquistato consistenza nel corso di quest’ultimo anno.

 

C’è stato un ricambio nelle candidature, anche se meno dirompente di quel che si tende a dire: la musulmana Rashida Tlaib, aderente alla piattaforma socialista cui fa capo Sanders, non è un nome nuovo della politica del Michigan, giacché è stata per sei anni nel parlamento statale. Insomma, i democratici hanno lavorato per rigenerare le loro radici a livello locale, dimostrando una buona capacità nel sollecitare la partecipazione. Il problema, per loro, è che il successo non può venire dalla semplice addizione delle varie realtà territoriali in cui sono forti. Anzitutto, perché la loro azione si è fermata prima di conseguire il successo di cui avrebbero avuto bisogno, cioè la vittoria in uno stato come il Texas o come la Florida. E poi perché per far confluire le spinte locali in una robusta corrente nazionale occorrerebbe una leadership che non può derivare da realtà particolari, pur significative, come il Michigan o il Wisconsin. Insomma, per il momento, i democratici hanno dimostrato di saper ancora parlare alle loro basi sociali, ma devono trovare la strada per una nuova leadership per le presidenziali del 2020.

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