
Donald Trump (Foto LaPresse)
Trumpiani alla riscossa
Il Senato diventa l’avamposto del trumpismo e il presidente dice ai ribelli: addio per sempre
Milano. Chi ha lavorato con me in queste “incredibili” elezioni di metà mandato è andato molto bene, chi non l’ha fatto “say goodbye”, addio per sempre. Donald Trump ha festeggiato il “successo straordinario” con i suoi soliti toni roboanti, avevamo tutti contro ma ce l’abbiamo fatta, e pazienza se la Camera torna ai democratici, il Senato è robustamente repubblicano, anzi, robustamente trumpiano. Le ribellioni dentro al Grand Old Party – quel disagio che aveva caratterizzato i repubblicani due anni fa quando si erano ritrovati a maneggiare un potere da partito unico con un presidente tanto ingovernabile – sono scomparse, e chi ancora ha tentato di mantenere le distanze non è stato premiato, addio per sempre. Il Partito repubblicano non ha perso seggi al Senato, anzi ne ha guadagnati e questo non soltanto aumenta le chance di tenuta nel 2020 – quando dovranno difendere 22 seggi dei 34 da rinnovare – ma anche consolida il controllo sulle nomine del governo e sulla Corte suprema (oltre a contenere le possibilità di impeachment).
La sconfitta dei senatori democratici in Missouri, North Dakota e Indiana, la tenuta in Tennessee e in Texas dove Trump è stato molto presente “porta al presidente una serie di senatori molto fedeli”, ha detto un consulente strategico al Wall Street Journal, mentre i più critici si erano già autoeliminati da soli: Bob Corker in Tennessee e Jeff Flake in Arizona non hanno corso a questa elezione, ed erano due critici del presidente.
Josh Hawley, che avrà appena compiuto 39 anni quando si insedierà al Senato il 3 gennaio, è il volto della riscossa trumpiana: ha vinto in Missouri contro una democratica moderata come Claire McCaskill, in uno stato che rappresenta alla perfezione le spaccature del paese, con le sue città liberal e le campagne più conservatrici e progressivamente sempre più repubblicane (era considerato uno stato swing). Hawley, che è un professore di Legge e ha lavorato alla Corte suprema come clerk ed era il procuratore generale del Missouri prima di candidarsi, inizialmente era stato cauto nel suo abbraccio a Trump, ma nelle ultime settimane aveva fatto suoi i proclami presidenziali, tracciando una linea dritta tra la McCaskill e Hillary Clinton e godendosi lo spettacolo di Trump in visita in Missouri che lo ha chiamato “astro nascente” della politica repubblicana.
I blitz di Trump si sono rivelati importanti: è stato due volte in Florida, in Indiana e in Missouri, e una volta in Montana, Tennessee, Ohio e West Virginia – in questi due stati hanno vinto i democratici, ma il senatore della West Virginia, Joe Manchin, è stato l’unico senatore democratico a votare a favore del giudice Brett Kavanaugh nella nomina alla Corte suprema, agli altri non è andata bene. Il tocco magico trumpiano non ha funzionato invece nel midwest industriale, in quegli stati che i democratici sciaguratamente ignorarono nel 2016 e che furono vinti da Trump: martedì, Michigan, Ohio, Pennsylvania e Wisconsin hanno eletto senatori democratici.
Le possibili voci critiche che restano al Senato tra i repubblicani sono Ben Sasse del Nebraska che però dovrà confermarsi il posto nel 2020, e se la regola dell’addio per sempre sarà ancora valida, probabilmente le sue critiche saranno meno forti. L’altra è Mitt Romney, che è stato eletto senatore in Utah: è critico, ma i repubblicani fanno affidamento su di lui. Così come lo fanno su Mitch McConnell, lo speaker dei repubblicani al Senato, che ha lasciato perdere le sue iniziali reticenze ed è ora considerato il braccio operativo del trumpismo nel trasformare il Gop nel partito di Trump.

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