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Quello che non va nella riforma di Trump

Sandro Brusco

Gli interventi del presidente sull’economia ricompattano la sua base elettorale ma scassano il bilancio americano. Gli effetti sul 2020 e una postilla (semicomica) sull’Italia

La principale iniziativa legislativa di politica economica approvata dopo l’elezione di Trump è stata la riforma fiscale. Come sempre, le caratteristiche della riforma sono state influenzate dagli interessi della coalizione politico-sociale vittoriosa. Come sempre, la misura ha determinato vincitori e sconfitti e ha causato un riallineamento, almeno parziale, nelle preferenze elettorali. Le elezioni di midterm di cui ora abbiamo i risultati (quasi) completi possono aiutare a capire quali sono tali riallineamenti. La politica fiscale è solo uno degli aspetti che gli elettori tengono in conto nel decidere chi e come votare, molti altri fattori entrano in gioco. Ma è un aspetto importante ed è interessante anche per un raffronto con il caso italiano, soprattutto in termini degli effetti sull’economia delle manovre di bilancio (anche se la diversità dei sistemi elettorali e istituzionali rende più difficile una comparazione su temi più propriamente politici).

 

Il calcolo politico della politica fiscale

L’ondata populista che scuote le democrazie occidentali ha portato come principale frutto avvelenato la mancata disciplina di bilancio

Di Maio dice di essersi ispirato alla riforma di Trump, ma la legge di Bilancio è profondamente diversa: in Usa meno tasse, in Italia più spesa

Cercherò di essere il più imparziale possibile nel descrivere gli effetti della riforma fiscale di Trump ma credo sia giusto avvertire i lettori che il mio giudizio su di essa è molto negativo. La ragione è che questa riforma è stata fatta pesantemente in deficit e contribuirà ad aumentare il debito pubblico statunitense, che inizia ad assumere dimensioni preoccupanti. Dato che l’economia Usa in questo momento ha raggiunto di fatto la piena occupazione, la politica di bilancio dovrebbe dedicarsi a ridurre deficit e debito, non ad aumentarlo. L’ondata populista che sta scuotendo le democrazie occidentali ha portato come principale frutto avvelenato il rifiuto di considerare seriamente le conseguenze di lungo periodo di una mancata disciplina di bilancio. La riforma fiscale di Trump è purtroppo parte di questa ondata e farà sentire i suoi effetti più sfavorevoli quando l’attuale fase espansiva si affievolirà.

 

La riforma però non ha solo creato ulteriore deficit. Ha operato scelte e ha creato vincitori e perdenti: sono contenute sia norme che hanno portato a una riduzione del carico fiscale sia norme che hanno portato a un aumento. Nel complesso prevalgono le prime (ragione per cui, dato che non ci sono stati seri tagli di spesa, la riforma crea maggiore deficit) ma è interessante vedere chi viene favorito di più o di meno. Le due principali misure di riduzione delle tasse sono la diminuzione dell’aliquota della corporate tax (la tassa sui profitti delle imprese) e la riduzione delle aliquote dell’imposta sul reddito. La corporate tax è passata dal 35 per cento al 21 pre cento, una riduzione molto significativa. Le aliquote sull’imposta sul reddito sono diminuite per tutte le fasce di reddito, ma non in modo omogeneo. L’aliquota più alta, che si applica a redditi individuali (prenderemo i redditi individuali come punto di riferimento, le cose sono leggermente diverse per le coppie che fanno dichiarazione congiunta) superiori a 500 mila dollari cala dal 39,6 al 37 per cento. Resta invariata al 35 per cento l’aliquota successiva, che si applica ai reddito tra 200 mila e 500 mila dollari. La riduzione più alta, pari al 4 pre cento, è quella dell’aliquota che si applica sui redditi tra 82.500 e 157.500 dollari, i redditi più bassi beneficiano di una riduzione del 3 per cento. Il taglio della corporate tax non è particolarmente popolare ed è poco utile a Trump nel breve periodo (quello che gli interessa, dato che la prossima elezione presidenziale è tra due anni) ma è una concessione all’ala più “istituzionale” e pro-business del partito repubblicano, della cui collaborazione Trump aveva bisogno per far passare la riforma. Il taglio dell’imposta sul reddito è invece popolare e indirizzato alla classe media.

 

La principali misure di aumento delle tasse sono state anche esse relative alla imposta sul reddito. A fronte della riduzione delle aliquote la riforma ha ridotto alcune deduzioni con un effetto asimmetrico in differenti parti degli Stati Uniti. Il principale intervento ha riguardato le tasse pagate agli stati e le imposte locali sulle case di proprietà. Prima della riforma tali tasse potevano essere applicate per ridurre le tasse federali senza limiti. La riforma ha posto un tetto massimo a 10 mila dollari. Questo tetto massimo è irrilevante per i contribuenti che vivono in Stati con basse tasse statali e basse tasse sulla proprietà immobiliare, ma causerà un aumento delle imposte federali sul reddito per i contribuenti che vivono in stati con alte tasse locali.

 

E quali sono? Alcuni dei grossi stati costieri, ossia stati come California, New York, New Jersey e altri come la Virginia e il Minnesota. Per parecchi contribuenti che vivono in questi stati, e altri con simili alti livelli di tassazione locale, è perfettamente possibile e in effetti assai probabile che la riforma fiscale si traduca in un aumento netto delle imposte pagate al governo federale, a parità di reddito. In altre parole, per molti contribuenti in questi stati l’effetto positivo che deriva dalla riduzione delle aliquote verrà più che compensato dall’effetto negativo che deriva dalla limitazione della deducibilità delle imposte statali sul reddito e delle tasse locali sulla proprietà immobiliare. D’altro canto, contribuenti che vivono in stati nei quali l’imposizione locale sul reddito è limitata o addirittura assente (Florida e Texas, per esempio) e le tasse sulle case sono basse non verranno probabilmente danneggiati dalla limitazione delle deduzioni e godranno dei benefici effetti della riduzione delle aliquote.

 

Il disegno politico che ha accompagnato la riforma fiscale è quindi abbastanza chiaro. Trump ha favorito gli stati in cui si trova la sua base elettorale, in buona misura (non esclusivamente) stati con basse tasse locali e bassi interessi sui mutui. Ha danneggiato alcuni importanti stati che non ha alcuna speranza di conquistare nel 2020. E’ quasi impossibile che stati come la California o New York diano la maggioranza a Trump alle prossime elezioni. Dato che il sistema elettorale prevede che tutti i voti elettorali dello stato vengano assegnati a chi arriva primo è logico, da parte di Trump, dare tali stati per persi e concentrarsi invece su quelli in cui esistono importanti possibilità di vittoria, come la Florida.

 

Calcolo presidenziale e parlamentare

Il calcolo presidenziale però non coincide necessariamente con il calcolo di convenienza parlamentare e questo ha contribuito almeno in parte alla vittoria dei democratici alla Camera. Qui una precisazione è utile. Negli Stati Uniti la Camera viene rinnovata integralmente ogni due anni. Il Senato viene invece rinnovato per un terzo ogni due anni e ogni senatore eletto resta in carica sei anni. Questo tende a introdurre discordanze nei risultati delle due camere. Era noto a tutti che la “mappa elettorale” era particolarmente sfavorevole ai democratici nel 2018, dato che la maggior parte dei senatori che dovevano essere rieletti erano democratici. Il risultato della Camera riflette quindi in modo più fedele gli umori dell’elettorato.

 

La discrepanza tra il calcolo politico presidenziale e il calcolo politico parlamentare deriva dal fatto che anche negli stati che alle presidenziali vanno sicuramente ai democratici sono presenti distretti elettorali che eleggono rappresentati repubblicani (e viceversa, naturalmente). Sono tali deputati che hanno pagato il costo più alto. Al momento in cui scrivo il numero dei seggi che sono passati da repubblicani a democratici è pari a 30, con alcuni seggi ancora non assegnati. Di questi 30, gli stati di New York, New Jersey e Virginia hanno contribuito con 3 ciascuno. Per capire l’intensità della sconfitta repubblicana in questi stati, osservate che lo stato di New York ha 27 deputati. Nel 2016, i democratici ne vinsero 18 e i repubblicani 9. I tre seggi persi dai repubblicani sono quindi un terzo della loro rappresentanza parlamentare nello stato. Il New Jersey ha 12 seggi e i repubblicani ne vinsero 5 nel 2016. Hanno quindi perso il 60 per cento della loro delegazione. La Virginia ha 11 seggi e nel 2016 i repubblicani ne vinsero 7, contro i 4 dei democratici. Ora i numeri si sono invertiti. Ovviamente ci sono anche altre tendenze in atto, per esempio sono vari anni che la Virginia ha iniziato a diventare sempre più ostile ai repubblicani. E’ difficile però pensare che il modo in cui è stata disegnata la riforma fiscale non abbia avuto un effetto.

 

Cosa attendersi ora

La riforma di Trump ha favorito gli stati in cui si trova la sua base e danneggiato alcuni importanti stati che non ha speranza di conquistare

Le notizie peggiori per Trump sono arrivate da alcuni stati del Midwest in cui aveva vinto nel 2016, come Michigan e Wisconsin

In termini di interventi legislativi fino alle prossime elezioni, tra due anni, la risposta è semplice: niente. Ora che la Camera è controllata dai democratici mentre la presidenza e il Senato sono controllati dai repubblicani, iniziative rilevanti sul fronte fiscale e della spesa pubblica richiederebbero accordi bipartisan. Questo è successo nel passato, per esempio Clinton si accordò con i repubblicani che allora controllavano la Camera per far passare un’importante riforma del welfare negli anni Novanta. La personalità di Trump al momento fa presagire che è difficile che cose del genere si ripetano nei prossimi due anni. Questa è tutto sommato una buona notizia. L’economia americana sta crescendo. Avrebbe bisogno di qualche intervento per ridurre il deficit federale, ma nel clima attuale è impossibile pensare a iniziative legislative in questa direzione che possano avere successo, da parte di entrambi i partiti. La paralisi legislative bloccherà almeno le tentazioni di aumentare il deficit, evitando sia aumenti sconsiderati delle spese sia riduzioni ulteriori delle entrate fiscali.

 

In termini di effetti sulle probabilità di rielezione di Trump: poco effetto. I democratici faranno di tutto per creargli problemi ma non è chiaro quanto saranno efficaci. Le notizie peggiori per Trump sono arrivate da alcuni stati del Midwest in cui aveva vinto nel 2016, come Michigan e Wisconsin, e nei quali i democratici hanno ottenuto importanti successi. D’altra parte Trump ha confermato la sua influenza in Florida, uno stato che non a caso ha beneficiato particolarmente dalla riforma fiscale. Inutile quindi fare previsioni, i giochi restano aperti e occorre come minimo aspettare e vedere quali saranno i principali contendenti democratici. Probabilmente un ruolo importante verrà giocato dall’economia. Se l’attuale fase espansiva continuerà almeno fino al primo semestre del 2020, la rielezione di Trump sarà più probabile. Se la crescita dovesse rallentare invece le chances di rielezione saranno molto limitate.

 

Trump, Di Maio e Salvini

Chiudiamo con una nota semi-comica. Di Maio ha provato a indicare nella politica economica di Trump una possibile ispirazione. Come detto, ho una pessima opinione di una riforma che porterà a un aumento del deficit e del debito. Detto questo, la riforma fiscale Usa è profondamente diversa da ciò che è contenuto nella legge di bilancio italiana. Nulla di equivalente al massiccio taglio della corporate tax è stato anche solo discusso in Italia. Si tratta di una riduzione che va in buona misura alle imprese più grandi. Non risulta che l’attuale governo abbia in programma nulla del genere; i pochi provvedimenti nel settore della tassazione d’impresa sono molto più limitati e tendono a ignorare le grandi imprese. Nemmeno pare che sia nei piani del governo introdurre importanti provvedimenti di abolizione di detrazioni e deduzioni che complicano il codice fiscale e che non hanno alcun vantaggio né di promozione della crescita né di redistribuzione del reddito. D’altra parte quella è l’unica possibilità per ridurre le aliquote delle imposte sul reddito senza scassare completamente il bilancio (la riforma Trump il bilancio lo scassa perché l’abolizione di deduzione e detrazioni è stata solo parziale). Non parliamo poi di “reddito di cittadinanza” o di condoni. In sostanza, l’unica cosa che hanno in comune il populismo di Trump e il populismo di Salvini e Di Maio è l’espansione del debito e l’ipoteca che questo pone sul futuro economico del paese. Negli Usa però questo è avvenuto mediante riduzione delle entrate, mentre in Italia prevale l’aumento delle spese. Il tempo dirà quale dei due approcci sarà peggiore nel lungo periodo.

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