Luciano Benetton (foto LaPresse)

La carica degli 80

Ugo Bertone

Una compagnia di ottuagenari agguerriti non abbandona i gangli del capitalismo italiano. Ritratti

Milano. Il capitalismo italiano soffre di non pochi acciacchi. Ma i capitalisti del Bel paese godono di un’invidiabile salute, frutto della ricetta a suo tempo riassunta dalle parole di Giulio Andreotti: il potere logora chi non ce l’ha. Guai, perciò, ad uscire dalla stanza dei bottoni. Ne ha preso atto anche l’Economist, aggiornando l’elenco delle imprese dei nostri capitani d’industria. Per limitarci alla cronaca recente, c’è voluto un ragazzo terribile di 84 anni, Leonardo Del Vecchio, per chiedere un cambio di passo in Mediobanca, a suo dire seduta sulle rendite garantite da Generali.

 

Uno scossone epocale al salotto buono che non ha assorbito più di tanto le energie del patron di Luxottica che già programma nuove imprese memorabili, anche quella cui incautamente si era opposto il “ragazzo” Nagel: una grande città della salute. Quella degli altri, naturalmente, perché lui a vederlo così pimpante e combattivo, non ne ha proprio bisogno. Come del resto l’amico Giorgio Armani, un anno di più, tirato a lucido nel giorno dell’ennesima passerella trionfale. Mai andare in pensione, insomma. Ne sa qualcosa Luciano Benetton, anni 84, tirato per i capelli (ancora fluenti, complimenti) per guidare di nuovo i business di famiglia, maglioncini in testa, e così cancellare, per quanto si può, l’associazione con la tragedia del ponte Morandi. Diavoli di italiani, pare dire l’Economist aggiornando l’elenco degli irriducibili “anta”. Non c’è più Bernardo Caprotti, il re di Esselunga ma tiene duro il rivale di sempre, Marco Brunelli, proprietario dell’Iper che, dice il gossip, a 91 anni intende regalarsi una Dallara, il bolide emiliano famoso per le corse a Daytona. Un altro milanese illustre, Stefano Pessina, invece sta trattando la vendita del secolo: 70 miliardi di dollari per l’impero di farmacie Walgreen Boots Alliance, costruito del 2007 con l’ausilio del colosso Kkr che oggi vorrebbe rilevarlo, anche tenendo conto dell’età dell’azionista e manager italiano. Forse ce la farà anche se non è detto che Pessina, “solo” 78 anni, sia pronto per mollare il colpo. Come di sicuro non faranno le due volpi grigie più celebri: Silvio Berlusconi, 83 anni, e Carlo De Benedetti, 85 primavere compiute giovedì scorso. Il primo, sulla carta è ufficialmente fuori dal business, ma di sicuro non c’è decisione che conta (specie nel duello con Bolloré), il secondo ha sfoderato il coup de theatre più clamoroso: l’offerta di acquisto della quota in Gedi, “La Repubblica” più “La Stampa”, già ceduta ai figli Mar o e Rodolfo” che non hanno né la competenza né la passione per fare gli editori”, accompagnato, tanto per marcare il dissenso, dalle dimissioni dalla presidenza onoraria della società.

 

Un dissidio degno di re Lear, insomma. O forse una edizione italiana del dilemma di Carlo d’Inghilterra, invecchiato in attesa di una chiamata al trono che non arriva mai, il destino che accomuna diverse eredi della nostra finanza. C’è, tra di loro, chi si è ribellato al destino di eterno delfino: Lorenzo Del Vecchio, primogenito del re degli occhiali, ha rigenerato il business di Brooks Brothers, per ricomparire al fianco di papà solo nella recente assemblea di Essilor/Luxottica. Alessandro Benetton ha alle spalle l’esperienza del private equity, così come Marco De Benedetti. Ma non è facile scrollarsi di dosso l’etichetta di figlio d’arte. A livello di sistema, poi, la continuità dinastica provoca non pochi inconvenienti, nota, intervistata dall’Economist, Raffaella Sadun della Harvard Business School. I talenti più brillanti, rileva, sono restii a legarsi ad aziende condizionate da relazioni familiari così strette ove, tutto sommato, è scontato che il posto di numero uno toccherà comunque a un membro della dinastia. Sembra logico ma, in realtà, il problema è soprattutto italiano. Eppure anche in altri paesi europei il panorama è donato da aziende a conduzione familiare. Ma questo non impedisce l’accesso ai piani nobili dei manager di talento. “Il capitalismo italiano – conclude Sadun – dovrebbe imparare due o tre cose dalle aziende tedesche del Mittestand”. Speriamo che i nonni sciur Brambilla le diano retta.