Luciano Benetton (foto LaPresse)

Amori e disamori verso i manager nel capitalismo famigliare

Guido Fontanelli

Ferrero conquista l’America con un dirigente esterno e Luciano Benetton si riprende il (suo) brand. Parabole e strategie

Roma. Il nome Lapo Civiletti non sarà conosciuto ai più. Ma questo dirigente fiorentino di 56 anni incarna una svolta storica per una delle più importanti multinazionali italiane, la Ferrero. Civiletti è infatti il primo ceo (chief executive officer) del gruppo che non fa parte della famiglia. Fino allo scorso mese di settembre fa quella poltrona era occupata da Giovanni Ferrero, 53 anni, figlio del fondatore Michele scomparso nel 2015. E prima ancora dal fratello Pietro, stroncato da un infarto nel 2011. La scelta di affidare il colosso della Nutella con i suoi 10 miliardi di fatturato a un manager, seppur cresciuto all’interno del gruppo, è molto delicata. Non a caso Giovanni mantiene la carica di presidente esecutivo, con la responsabilità delle grandi strategie e delle acquisizioni internazionali: dopo l’acquisto dell’americana Ferrara Candy, l’azienda piemontese è in gara per rilevare alcune attività della Nestlè negli Stati Uniti e potrebbe diventare il terzo produttore di dolciumi americano dopo Hershey e Mars. I Ferrero restano molto vicini alla loro creatura. Sperando di non trovarsi mai nella situazione vissuta da altri famosi imprenditori che hanno dovuto cacciare i dirigenti e rientrare di corsa in sala comandi.

 

E’ delle ultime settimane il caso clamoroso di Luciano Benetton che a 82 anni ha deciso di tornare a guidare la United colors of Benetton: “Nel 2008 avevo lasciato l'azienda con 155 milioni di attivo e la riprendo con gli 81 milioni di passivo del 2016” ha detto a Repubblica. “E quest’anno sarà peggio. Per me è un dolore intollerabile. Perciò torno in campo come allora, con mia sorella Giuliana che, a 80 anni, ha ripreso a fare maglioni”. “Io mi ero messo da parte sul serio”, ha aggiunto l’imprenditore che nove anni fa aveva ceduto lo scettro dell’azienda ai manager. “Non sento la colpa di aver fatto altro in questi ultimi anni. Ma sento la rabbia. E penso che la parte sana dall’azienda sia, come me, arrabbiata. La rabbia ci farà bene”.

 

L’intervista ha fatto scalpore e ha riaperto un’antica ferita che lacera il capitalismo italiano: non abbiamo dirigenti capaci di prendere il testimone e traghettare le aziende verso il modello anglosassone? Oppure sono gli imprenditori che non riescono a delegare? O forse la creatività e la genialità sono dell’imprenditore e non del manager?

 

Anche alla Luxottica (9 miliardi di ricavi) si è consumato un divorzio tra padrone e dirigente: nel gennaio 2016 il fondatore Leonardo Del Vecchio, ora 82enne come Benetton, ha mandato via l’amministratore delegato Adil Khan (che appena un anno prima era subentrato ad Andrea Guerra) e ha ripreso le redini della multinazionale degli occhiali. “Si tende a dare sempre più importanza ai manager che gestiscono le società, ma ciò che conta veramente sono le idee, la visione imprenditoriale, la capacità di guardare lontano e proiettare l’azienda in avanti” ha spiegato Del Vecchio. “E’ questo che trasforma un’azienda in una realtà di successo. Il manager si concentra sulle tecniche di gestione e sulla sofisticazione delle organizzazioni e a volte si dimentica di chiedersi semplicemente se il prodotto che fa è buono o cattivo, se lo si può fare meglio o diverso, se c’è un modo migliore di servire i clienti o di parlare con loro. Queste sono le domande che mi ponevo cinquant’anni fa senza aver studiato e aver fatto l’università, e sono le stesse che pongo ogni giorno ai miei manager in azienda”.

 

Un ragionamento che ricorda la storia della Apple, appassita dopo la cacciata del co-fondatore Steve Jobs e rinata grazie al trionfale ritorno del più geniale imprenditore della storia recente. Del resto, al di là della retorica pro-manager costruita dalle business school, il capitalismo americano continua a costruire il suo successo su imprenditori-gestori come Mark Zuckerberg di Facebook, mentre mostra tutti i suoi limiti quando grandi gruppi restano ostaggio di una elite di dirigenti potentissimi ma poco capaci, come è capitato alla General Motors.

 

Gian Luca Rana, 52 anni, figlio del fondatore Giovanni e numero uno dell’omonima azienda di pasta fresca e tortellini (586 milioni di fatturato), racconta di aver festeggiato i 50 anni mandando via un paio di manager: “Mi sono tolto una soddisfazione. Io non sopporto la cultura dell’Mbo, della ricerca del guadagno a breve. E poi era come avere delle persone che decidevano di spostare i mobili di casa mia senza dirmi nulla. Ma i mobili erano stati messi lì per una ragione ben precisa”. Una frase rivelatrice della cultura imprenditoriale italiana: l’azienda è la mia casa e va trattata con rispetto e con passione. Doti che a volte mancano ai dirigenti professionisti.

 

Esiste allora una soluzione? Le imprese italiane sono destinate a restare in famiglia fino a incrociare sulla loro strada l’erede sbagliato e quindi soccombere? Ovviamente non è così. Ci sono società come la Beretta (quella dei fucili) che dal 1526 è sempre stata gestita direttamente dai Beretta e gode di ottima salute. O come la casa farmaceutica condotta dai Recordati, che continua a crescere a colpi di acquisizioni in giro per il mondo.

 

Ma ci sono anche ottime esperienze manageriali. A parte le vicende della Fiat che si è salvata grazie a Sergio Marchionne, c’è la Brembo che dal 2011 è guidata dal manager Andrea Abbati Marescotti, mentre il fondatore Alberto Bombassei fa il presidente. E poi c’è il caso della Campari (1,7 miliardi di fatturato) che da dieci anni è gestita con successo da Bob Kunze-Concewitz sotto lo sguardo attento ed esigente della famiglia Garavoglia.

 

Se una regola esiste, forse va racchiusa in una parola che apparentemente poco a che fare con il business: amore. Come disse Del Vecchio, “per me come per tanti altri imprenditori, siamo qui perché amiamo le aziende che abbiamo costruito”. Quindi, va bene cedere la propria creatura ai manager, se in famiglia non si trova un condottiero capace. Ma mantenendosi vigili e presenti. E quando i dirigenti sbagliano e si comportano male, il “papà” deve tornare subito a curare la figlia maltrattata. Anche con rabbia, come minaccia Benetton.

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