Da sinistra Carlo De Benedetti, Gaudenzio Bono e Gianni Agnelli (foto LaPresse)

Cosa c'è dietro la guerra su Gedi (e Rep.)

Stefano Cingolani

Una saga familiare, una rivalità di interessi, uno scontro di personalità, due visioni della stampa

Il consiglio di amministrazione della Cir ieri ha deciso. Il gruppo Gedi passa a Exor. La Borsa applaude premiando la Cir (+12 per cento) non Exor (-2 per cento). I giornalisti non nascondono la loro preoccupazione. Dal punto di vista economico la scelta è razionale. La Repubblica ha perso la metà delle copie e dei ricavi rispetto ai picchi che aveva raggiunto e bisognerà investire molti quattrini per rilanciarla; inoltre si è dissolto anche il bacino di lettori al quale faceva riferimento. E’ una mutazione sociologica e politica, il giornale partito non ha più partito. Dicono che Carlo De Benedetti fosse in barca alle Bahamas mentre i figli Rodolfo, Marco ed Edoardo trattavano non solo la vendita del giornale, ma la chiusura di un’epoca, la seconda epoca del quotidiano, dopo i vent’anni del fondatore Eugenio Scalfari, dal 1976 al 1996, segnati dalle battaglie contro “la razza padrona” e contro Bettino Craxi, e dopo il ventennio antiberlusconiano con il giornale guidato da Ezio Mauro e l’Ingegnere ormai in completo controllo della proprietà. Nelle sue “confessioni libertine” affidate ad Antonio Gnoli e Francesco Merlo, Scalfari ricorda quando convocò Mauro ancora direttore della Stampa per affidargli la successione. Gli chiese quante volte Gianni Agnelli lo chiamava. “Una al mese” risposte Mauro. E Scalfari: “Vedrai che De Benedetti ti chiamerà molto più spesso. E così avvenne. De Benedetti formava le sue idee parlando e confrontandosi con il direttore del suo giornale”.

 

E’ comprensibile, dunque, l’amarezza del vecchio condottiero, anche se la rottura in fondo era già avvenuta una prima volta nel 2012 quando decise di lasciare tutto ai figli e poi nel 2017 quando avvenne il passaggio della Stampa e del Secolo XIX nel Gruppo Espresso del quale la Exor guidata da John Elkann entrò con una quota del 6 per cento. Allora molti scrissero che l’erede Agnelli mollava i giornali a De Benedetti. Altri intuirono che era solo la prima tappa di una vera e propria scalata. Dopo mezzo secolo in cui due famiglie iconiche del capitalismo italiano si sono incontrate e scontrate, De Benedetti si è arreso al vincitore, quel John Elkann che ha costruito un gruppo internazionale da 143 miliardi di euro anche se molti continuano a non prendere sul serio. L’Ingegnere ha tentato il colpo di coda, un gesto d’orgoglio, a metà dello sorso mese, chiedendo ai figli di cedergli il controllo del giornale. Una proposta definita “irricevibile”. Due settimane dopo, ha lasciato anche la carica di presidente onorario del gruppo editoriale.

 

Facciamo un po’ di conti, necessari anche se noiosi. Gedi era in carico a Cir per quel 43 per cento del capitale a 1,2 euro per azione il che equivale a un valore di 273 milioni. La quota di Elkann è a bilancio di Exor per 10,5 milioni di euro che valorizza il gruppo poco più di 200 milioni di euro. In più Exor ha acquistato sul mercato nel 2017 un altro pacchettino di azioni Gedi pari all’1,7 per cento per 6,8 milioni, al prezzo di 80 centesimi ad azione. Oggi in Borsa il titolo viene trattato a 28 centesimi per un valore di mercato di meno di 150 milioni di euro. In questi due anni sono scesi ancora fatturato e redditività del gruppo editoriale che ha subìto la prima perdita della sua storia proprio nel 2017: 120 milioni sui quali pesano eventi straordinari (la pendenza persa con il fisco), ma non cambia molto la sostanza. Nel primo semestre del 2019, a fronte di ricavi per 302 milioni, il margine operativo lordo si è attestato a soli 20 milioni e la perdita è stata di 19 milioni (anche in questo caso ci sono oneri extra che non mutano la tendenza). Kos (le cliniche) e Sogefi (componenti meccaniche), le altre due attività della Cir, producono utili operativi rispettivamente per 50 e per 37 milioni di euro. 

 

I tre eredi De Benedetti e gli altri azionisti, dunque, hanno guardato alle cifre. Può darsi che di editoria non capiscano nulla, come li ha accusati il padre, è certo che non la amano. Sono anni del resto che Rodolfo propone di uscire da un abbraccio diventato perverso. L’Ingegnere era entrato attraverso la Mondadori nel 1988 e poco dopo scoppiò la guerra di Segrate con Silvio Berlusconi. Si risolse con una spartizione: la casa editrice al Cavaliere, il giornale all’Ingegnere. Cominciò da allora un duello che ha segnato non solo l’editoria, ma la politica italiana. Uno scontro al quale ha partecipato anche Scalfari, anche se con un certo distacco che De Benedetti gli ha rimproverato apertamente.

 

Dietro alla vendita di Repubblica c’è una saga famigliare, c’è una rivalità di interessi, uno scontro di personalità, una visione del paese e della stampa. Gli Agnelli e i De Benedetti sono due poli di quella borghesia torinese che ha unificato l’Italia. Vivevano nello stesso stabile di corso Oporto (oggi corso Matteotti) e Carlo divenne amico di Umberto con il quale aveva frequentato la stessa scuola al collegio San Giuseppe, ma anche lui non poteva non subire il fascino di Gianni. Quando nel 1976 si trovarono fianco a fianco, la convivenza durò appena 100 giorni. L’Ingegnere racconta che l’Avvocato arrivava in corso Marconi, quartier generale della Fiat tutte le mattine alle 8, poi alle 8 e 30 un valletto passava per i corridoi della direzione suonando un campanello e tutti dovevano entrare nell’ufficio del presidente, per primo l’amministratore delegato. L’incontro non superava mai la mezz’ora. Poi Gianni partiva, in auto o in elicottero e De Benedetti giù a guardare i conti che non quadravano, insieme a Cesare Romiti, il cerbero inviato da Enrico Cuccia. Non poteva durare e non durò. Dissero che l’Ingegnere stava scalando la Fiat e voleva scalzare gli Agnelli. Lui ha sempre spiegato che intendeva solo restare azionista di riguardo (aveva scambiato la sua società, la Gilardini, per il 5 per cento del gruppo automobilistico). Ma l’ombra del sospetto in casa Agnelli non venne mai fugata. E ancor oggi colpisce che la Exor nel comunicato ufficioso fatto circolare sabato, non citi l’Ingegnere: si dice soltanto che non ci saranno operazioni nostalgiche. L’ex patron di quello che era diventato il primo quotidiano italiano non è che mister Nostalgia.

 

L’Avvocato aveva incrociato Eugenio Scalfari ai tempi dell’Espresso, grazie a suo cognato il principe Carlo Caracciolo e alla casa editrice Etas Kompass finanziata dalla Fiat. Tra la Fiat e il gruppo Espresso c’era un incrocio di talami, visto che uno dei fondatori di Repubblica, Carlo Caracciolo, era cognato di Agnelli, mentre Eugenio Scalfari è stato il genero di Giulio De Benedetti, storico direttore della Stampa. Un coinvolgimento discreto e indiretto, ma che scatenò un putiferio politico. L’Espresso infatti era nemico giurato di Eugenio Cefis allora uomo forte dell’Eni e del suo padrino politico Amintore Fanfani, allora uomo forte della Dc. Fu proprio lui, mentre Cefis puntava a diventare presidente della Confindustria, a chiedere che Agnelli troncasse il cordone ombelicale con l’Espresso. Allora, siamo nel 1974, Scalfari scrisse un pezzo velenoso contro “l’Avvocato di panna montata”, eppure i loro rapporti sono sempre rimasti cordiali (e molte battaglie economiche e politiche furono combattute in parallelo) tanto che la Repubblica veniva scelta per dare le informazioni sul mondo Fiat che non potevano essere pubblicate né dalla Stampa, il giornale di famiglia, né dal Corriere della Sera del quale Agnelli era azionista di riferimento. Gli scoop sulla marcia antisindacale dei 40 mila capi nel 1980 o sulla rottura al vertice tra Romiti e Vittorio Ghidella uscirono proprio sulla Repubblica con grande scorno e irritazione soprattutto in Via Solferino.

 

Nonostante Cuccia lo ammonisse di tenersi lontano, l’Avvocato amava i giornali. Nel Corriere era entrato più volte a cominciare dal 1973 quando intervenne per aiutare Giulia Maria Crespi. Gianni sentiva come sua solo la Stampa e guardava con una punta di invidia al giornalismo brillante e battagliero della Repubblica rispetto a quello posato se non proprio paludato del Corriere della Sera. Giorgio Fattori già direttore della Stampa era l’uomo degli Agnelli in Via Solferino, giornalista che aveva cominciato con la cronaca e lo sport, diceva ai giovani redattori: un piatto è ricco se c’è un buon contorno, ma prima viene sempre la bistecca. Tante notizie, poche parole, il primato dei fatti. Una regola aurea alla quale Scalfari affiancava il buco della serratura, soprattutto quello della politica, con quel tratto pettegolo e l’amore per l’intrigo.

 

Cosa sarà ora Repubblica, anzi l’intero gruppo editoriale? Le radio del gruppo (Radio Capital e Radio Deejay) compensano in parte le perdite dei giornali: fatturano solo il 10 per cento del totale ma hanno margini lordi del 30 per cento. Anche le testate locali riescono a produrre guadagni. Exor ha già fatto capire che punterà molto su questo e rafforzerà la componente digitale. Ma le bandiere restano la Repubblica e l’Espresso. E lì ci sarà una inevitabile ristrutturazione. Per John Elkann è un pezzo importante in quel puzzle editoriale che vorrebbe mettere insieme in Italia e all’estero (ha speso 403 milioni di euro per l’Economist nel 2015). Ma ha anche il sapore di una rivincita dopo la sconfitta subita al Corriere della Sera nel quale aveva investito 200 milioni di euro con scarsi risultati, trovando una resistenza rocciosa tra gli altri azionisti del gruppo Rcs e nello stesso corpo editoriale. Inoltre manifesta la volontà di restare in Italia.

 

C’è il tempo dell’uscita (con la Fca quotata a Londra e Amsterdam), poi c’è il tempo del rientro. Anche perché le fabbriche sono in Italia e qui si gioca una partita difficile: la riconversione elettrica dell’industria automobilistica è un salto tecnologico complicato che lascerà pesanti conseguenze sociali. La Fca Italia è di gran lunga il primo gruppo privato tricolore e il quarto in assoluto con un fatturato di 22 miliardi di euro. Exor ha bisogno di mettere sul tavolo nuove carte e svolgere un ruolo propositivo. Si crea inoltre una grande concentrazione editoriale e territoriale che rappresenta una sfida aperta alla Rcs controllata da Urbano Cairo. Ancora Repubblica contro il Corsera, ma senza più cognati né affinità elettive. Che ripercussioni avrà sullo scenario politico? Il quotidiano milanese ha sdoganato i nazional-populisti, anche se non li ha sposati. Il quotidiano romano ne è un fiero avversario (di Matteo Salvini per la verità). Elkann parla di giornalismo di qualità, di indipendenza, di autonomia. Ma inutile negare che lui, membro della famiglia reale del capitalismo italiano, cosmopolita, che ha costruito una vera multinazionale, sembra proprio il bersaglio perfetto dei sovranisti i quali non cessano di attaccare la “vendita” della Fiat e la “fuga” all’estero. Siamo solo agli inizi, ce n’est qu’un début.

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