John Elkann (foto LaPresse)

Elkann ha smentito tutti

Salvatore Merlo

Il destino capovolto del nipote che sembrava destinato a chiudere la ditta, e invece ha restaurato l’impero

Nei giorni drammatici del convertendo, quando nel 2005 le banche prestarono tre miliardi alla Fiat che ormai appariva destinata a un irrimediabile fallimento, il ventinovenne John Elkann era solo “il nipote”, l’erede di Gianni Agnelli, il ragazzo la cui esistenza sembrava un distillato di pene incruente, compresse, quietamente corrosive. Circondato e protetto da Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens, gli ultimi uomini dell’Avvocato, Elkann era il giovane che parlava con una voce sempre in sordina, come se temesse che ogni parola pronunciata potesse essere ripetuta e snaturata da mortali nemici. Cesare Geronzi, allora strapotente banchiere di sistema, lo ricorda rigido come un obelisco, fra tende damascate e busti di marmo, la testa piegata all’indietro che gira un istante per inviargli una smorfia di autocompassione tra gli occhi lucidi: “Non posso essere io a chiudere l’azienda di mio nonno”.

 

D’altra parte quella di John Elkann era una storia già scritta, doveva essere quello che abbassava la saracinesca su un pezzo di storia d’Italia. Secondo tutti, erede con la bonaccia nel sangue, lasciava infatti la proprietà del Corriere della Sera, il grande giornale della borghesia che fu, e cedeva ai concorrenti De Benedetti anche il controllo della Stampa di Torino, cioè il giornale di famiglia, proprio perché (pre)destinato alla resa e alla sconfitta, al disimpegno dall’impresa e alla fuga dall’Italia, feudo ed epicentro di un impero, con i suoi stabilimenti e i suoi operai, l’odore della fabbrica e delle rotative, gli insediamenti di Torino, Grugliasco e Mirafiori, ultimi barbagli d’un mondo al crepuscolo, casa Agnelli, appunto, un universo sottoposto alla tirannia del tempo, con le sue minacciose lancette. Una crisi, antropologica e finanziaria, che attorno a Elkann sempre si accompagnava a insolenze e piccole malizie nel salotto industriale italiano, lì dove nemmeno Diego Della Valle, presenza ingombrante ed emotiva, risparmiava motti e lazzi: “Quel poveretto di Jaki non perde mai l’occasione di ricordare che è un imbecille”.

 

Eppure, mentre attorno al nipote di Gianni Agnelli si accavallava senza tregua un’accozzaglia di malignità e leggende, sorrisetti e sollevamenti di sopracciglia, ecco che questo erede un po’ ripiegato e silenzioso, il rampollo la cui vita sembrava già confezionata nel tessuto del declino, ha silenziosamente ribaltato la maledizione congenita che gli si apparecchiava davanti. E così ha pian piano internazionalizzato la Fiat, grazie a Sergio Marchionne, assunto su consiglio del prozio Umberto dicono, forse, ma poco importa, perché il ragazzo che si presentava a Geronzi con gli occhi lucidi alla fine ha davvero trasformato la semi fallita Fabbrica Italiana Automobili Torino nella Fca, ovvero nella più grande multinazionale del nostro paese. L’ha quindi fusa con Chrysler, adesso forse con Peugeot, ha inoltre acquistato quote del settimanale britannico Economist, rinverdendo i fasti ambigui ma tradizionali dell’intreccio tra grande capitale e informazione. E lunedì scorso, a quarantatré anni, persa l’innocenza giovanile ma non il dono di una serietà e d’un puntiglio che spesso lo rendono indecifrabile (e talvolta, forse per malinteso, anche antipatico), ecco che l’ex ragazzo timido e insicuro, proprio lui che sembrava uscito da una tragedia di Thomas Mann sulla dissipazione borghese, consuma invece un ribaltamento simbolico che ha il sapore della nemesi e della rivincita: acquista dunque Repubblica e riprende così anche la Stampa da quei De Benedetti, torinesi come gli Agnelli, ai quali si era collegato nel 2016 come socio minoritario.

 

Finisce dunque che il giornale dell’uomo che tentò di prendere la Fiat all’Avvocato, cioè l’Ingegnere Carlo De Benedetti, viene acquistato dall’erede dell’Avvocato. Nemesi, appunto. E che la presa di Repubblica sia adesso tutta un’operazione cinica di Elkann per ottenere copertura da un impopolare progetto di ridimensionamento delle fabbriche Fca in Italia, come sospetta il vecchio De Benedetti, forse in realtà poco importa: del resto una passione vera può nascere in mille modi, uno più falso dell’altro. Piuttosto, in tutta questa vicenda, sembra quasi essere messa in discussione quella legge biologica di regressione verso la media cui si era applicato negli ultimi anni della sua vita H. J. Eysenck, secondo cui genitori di intelligenza eccezionalmente alta tenderebbero ad avere figli o nipoti meno eccezionali. Sembrava la regola del capitalismo famigliare italiano, la storia dei Pirelli e degli Olivetti, dei Ferruzzi e dei Pesenti, persino dei De Benedetti, dunque anche degli Agnelli. E invece l’erede più sottovalutato di tutti è anche l’unico che non ha dissipato il lascito, anzi. Almeno finora.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.