“Re Lear nella tempesta”, dipinto di Benjamin West del 1788

Il Re Lear di Repubblica

Nicola Fano

La tragedia shakespeariana per spiegare l’offerta di Carlo De Benedetti e il gran rifiuto dei figli

Adesso ci si fa guerra a colpi di comunicati; ai tempi di Re Lear, certe cose ce le si diceva in faccia; al limite, ci si faceva guerra. Guerra vera, ovviamente, con armi e sangue. Siamo diventati più urbani nei modi, ma la sostanza resta la stessa: il segno che Shakespeare aveva visto giusto lo si può rilevare – oggi quattro secoli e spicci dopo – dentro la vicenda che nelle scorse settimane ha messo di fronte Carlo De Benedetti e i suoi figli Rodolfo e Marco.

 

C’è chi ha tirato in ballo Saturno, quello dei greci, di Rubens, di Goya. Quello che divora i figli. Meglio Shakespeare

La storia è nota: dopo aver “regalato” a Rodolfo, Marco e Edoardo (l’unico che non si occupa direttamente di imprenditoria) dieci anni fa, le sue quote e il controllo della Cir (la holding di famiglia, che possiede giornali, aziende sanitarie e industrie di componentistica automobilistica), venerdì 11 ottobre scorso Carlo De Benedetti ha chiesto indietro la Gedi, ossia la società che edita la Repubblica, L’Espresso e un buon numero di redditizi giornali locali. Un gesto estremo (l’imprenditore sta per compiere 85 anni) in nome di una vecchia passione, hanno commentato i più, riferendosi allo storico legame dell’Ingegnere con il mondo della carta stampata. Ma la controversia è apparsa subito un po’ più complessa. A parte questioni squisitamente economiche (la valutazione delle azioni di Cir), la bomba è esplosa prima con il comunicato di risposta della Cir (“proposta irricevibile”) poi con il commento di Rodolfo: “Sono profondamente amareggiato e sconcertato dall’iniziativa non sollecitata né concordata presa da mio padre e il cui unico risultato consiste nel creare un’inutile distrazione, della quale certo non si sentiva il bisogno”. Sicché, a quel punto, il “padre” ha dovuto tuonare le sue vere ragioni (sempre via comunicato): “Trovo bizzarre le dichiarazioni di mio figlio Rodolfo. E’ la stessa persona che ha trattato la vendita del Gruppo Espresso a Cattaneo e Marsaglia. La gestione sua e di suo fratello Marco hanno determinato il crollo del valore della azienda e la mancanza di qualsiasi prospettiva, concentrandosi esclusivamente sulla ricerca di un compratore visto che non hanno né competenza né passione per fare gli editori: hanno distrutto valore, negli ultimi anni. Nonostante l’età, ho passione e idee per istituzionalizzare il Gruppo assicurandogli un futuro di indipendenza ed autonomia”. Leggete bene questo (mitologico) botta-e-risposta: c’è chi, chiosandolo, ha tirato in ballo Saturno, quello dei greci, di Rubens, di Goya, quello che divora i figli. Qui, invece, vi si vorrebbe persuadere che è più congruo pensare a Shakespeare, appunto.

 

Il problema non è far dietrologia sulla mossa di De Benedetti padre: ricomprare davvero?; abbassare il prezzo di Gedi per far riprendere a buon prezzo La Stampa a John Elkann il quale, fondendo la sua società editrice a quella dei De Benedetti, l’aveva conferita alla Gedi?; rialzare le quotazioni di Gedi medesima per farla vendere a un prezzo migliore? Queste sono le dietrologie correnti ma qui, no, noi vorremmo parlare d’altro: del conflitto padre/figli. E di come Shakespeare, quasi unico nella storia, per una volta abbia rovesciato un punto di vista millenario, così anticipando la mitica contesa tra i De Benedetti.

 

Nel canone teatrale occidentale, una sola storia procede con i figli che miracolosamente riescono a “uccidere” il padre

E’ quasi troppo facile dire che il canone teatrale ha al suo centro storie di figli che – senza riuscirci – tentano di uccidere i padri. Padri che li condizionano (Agamennone con Oreste, secondo Eschilo); padri che li mandano a morte (Creonte con Emone, secondo Sofocle); padri che gli divorano il destino (Amleto senior con Amleto Jr); padri che gli impongono leggi inutili (Polonio con Laerte e Ofelia); padri egoisti (Argante con Angelica nel Malato immaginario di Molière); padri ossessivi (Desiderio con Adelchi nella versione manzoniana); padri, o per meglio dire madri possessive (la madre di Krapp/Beckett); padri falliti (Willy Loman in Morte di un commesso viaggiatore di Miller) e moltissimi altri. Son tutte storie diverse, ma un solo dato le accomuna: i padri vincono sempre e uccidono (in concreto o in modo metaforico) i figli. Ai quali – quando non sacrificano la vita alla propria impossibilità di essere se stessi – non resta che adeguarsi alle leggi della generazioni dei padri.

 

Nel canone occidentale, una sola storia procede in senso inverso, con i figli che miracolosamente riescono a “uccidere” il padre: Re Lear di Shakespeare. La contesa tra i De Benedetti va nella stessa direzione: a dimostrazione che l’eccezione shakespeariana, oltre a confermare la regola, era dettata da una intuizione giusta. Vediamo perché.

Lear, re ottuagenario, inopinatamente decide di lasciare alle sue tre figlie il potere e le sue ricchezze: “Ho diviso il mio regno in tre parti: le mie spalle ormai sono troppo vecchie e stanche perché possa prendermi cura di tutto questo. Ora tocca a voi andare avanti e comandare: così io potrò andarmene tranquillamente incontro alla morte”. Ma, per passare all’assegnazione precisa, lancia una specie di gara dell’adulazione: “Visto che io sto per spogliarmi di tutto il mio potere per trasferirlo a voi, ditemi chi di voi mi ama di più in modo che io possa essere più prodigo, con lei!”.

 

Non sappiamo se in privato Carlo De Benedetti abbia lanciato lo stesso torneo, dieci anni fa, ma certo al momento del passaggio di consegne i lasciti sono stati di peso specifico differente, dal momento che nelle mani di uno solo dei figli (Rodolfo) si è concentrato il potere maggiore. Lear si limita a dividere la sua eredità in tre parti uguali, salvo diseredare la figlia più amata (Cordelia), rea di essere “così giovane e così arida”: non ha saputo adulare il padre per benino. Già, perché Lear è vanitoso: valutate voi se i capitani d’industria di oggi – e l’Ingegnere in specie – lo siano o no. Comunque sia, in Shakespeare, è il miglior consigliere del sovrano, Kent, a ribellarsi alla scelta folle del vecchio Lear: “Io non ho paura di te, io ti rispetto! Ma nessuna adulazione per le tue follie. Torna in te, Lear, revoca questi provvedimenti, aspetta di decidere in modo più equo quando avrai vinto la tua collera”. Lear lo licenzia, e tanti saluti. Qualche testa, oggettivamente, è caduta, anche nel gruppo Cir e nei suoi giornali, in concomitanza con il passaggio di consegne tra padre e figli.

 

Per sopravvivere avranno bisogno di avermi alleato, non nemico, avrà pensato Re Lear De Benedetti. Poi i comunicati piccati

Fin qui – primo atto della tragedia shakespeariana – siamo nel solco della tradizione: un patriarca mette alla prova i figli. Il teatro elisabettiano è pieno di faccende simili con re che fingono lunghi viaggi e poi si nascondono per capire come governano i propri delfini (e magari infine diseredarli): Misura per misura, dello stesso Shakespeare, il Malcontento di John Marston. La genialità di Shakespeare sta nei quattro atti successivi. Emarginata la ex prediletta Cordelia, Lear si accasa un mese con una un mese con l’altra figlia, Gonerill e Regan. Le quali però hanno un solo obiettivo: liberarsi del padre, delle sue ubbie, delle intemperanze dei suoi fedelissimi. Si alleano e tuonano: se vuoi stare con noi, devi farlo alle nostre condizioni; e senza la scorta di cento uomini che hai chiesto, ché crea confusione a palazzo e può diventare il motore di un colpo di stato ai nostri danni… Il vecchio re, imbestialito, perde il lume della ragione e se ne va: in compagnia di un pugno di fedelissimi (Kent travestito da servo e il suo moraleggiante Fool) affronta una tempesta terribile di pioggia, tuoni e fulmini a capo scoperto. In pratica, vuole espiare la colpa di essersi fidato delle figlie cattive.

 

Ora, togliamo dal suo tempo la vicenda di Lear (nella mitologia fu un re di Bretagna dell’epoca preromana) e immaginiamo per un momento che sia un potente della finanza occidentale d’oggi. Che cosa succederebbe, a questo punto, alle società di Lear? Una volta passate di mano e giunte in quelle di gente o ingorda o inesperta (Gonerill e Regan hanno mariti bramosi di potere e altolocati, ancorché di formazione e sentimenti differenti uno dall’altro), probabilmente capiterebbero loro due cose: innanzitutto cambierebbe il cosiddetto core business dell’azienda (metti che Gonerill abbia il pallino del mercato energetico e Regan di quello meccanico…); in secondo luogo la mancanza dell’avallo paterno probabilmente metterebbe in difficoltà il rapporto tra le società degli eredi di Lear e le banche finanziatrici. A questo punto, alle figlie non resterebbe che cercare di riconquistare – anche con la forza – il “credito” del padre tramite una formale (ma vuota) copertura del valore finanziario della holding. E infatti Gonerill e Regan, nel testo di Shakespeare, fanno di tutto per imprigionare il padre fuggiasco: hanno bisogno di mostrarlo ai sudditi come un “alleato” non come un nemico, giacché la loro gestione del regno non è poi così feconda. E’ possibile che Carlo De Benedetti abbia pensato qualcosa di simile, quando si è offerto di ricomprare la società editrice del gruppo che aveva regalato ai figli: per sopravvivere avranno bisogno di avermi alleato, non nemico. Prima della girandola dei comunicati velenosi riportati sopra, la proposta di acquisto formale era stata sobria, quasi nel nome di un rilancio da concordare. Poi, avuto il rifiuto secco e personalizzato di Rodolfo, l’Ingegnere è sbottato.

 

Del resto, su questo punto Shakespeare è chiaro e, come dire? rivoluzionario: i figli per una volta hanno ucciso il padre. Lo hanno ucciso per davvero: era la condizione essenziale per crescere, per essere se stessi, magari anche per essere liberi di sbagliare. Gonerill e Regan non cercano un alleato, cercano di tappare la bocca a un uomo carismatico che se ne va in giro per il regno a rovinare la reputazione dei nuovi potenti. Per di più, in Shakespeare, c’è da fronteggiare la guerra con la Francia, guidata dall’uomo che ha sposato la terza figlia di Lear, Cordelia, quella buona ancorché arida, che il padre aveva ripudiato e diseredato, e che forse il re di Francia ha sposato proprio progettando una successiva scalata al regno di Lear.

 

Chi è Cordelia in questo gioco letterario? La figlia “buona” è una donna rigida, forse troppo: ha stoffa regale e lo sa

Ma chi è Cordelia nella nostra storia, lo vedremo alla fine. Per ora restiamo al difficile rapporto tra Lear e le altre due figlie. Dice Gonerill del padre: “Un vecchio rimbambito che ancora pretende di esercitare un potere che ha buttato al vento. I vecchi sciocchi tornano bambini e bisogna trattarli con le cattive, quando fanno i capricci”. La donna non esprime questo parere tramite un comunicato ufficiale: lo dice al suo servo più fidato, spiegandogli perché vuole cacciare il padre. Il quale, più avanti – in una memorabile scena dove la sua regale e antica fattezza di potente decaduto viene sferzata da vento e pioggia – tuona parole terribili: “Forza, pioggia, fuoco e vento. Voi non siete miei figli: non vi chiamerò ingrati, perché a voi non regalai un regno. Non mi dovete obbedienza: rovesciatemi addosso liberamente i vostri orrori: io sono qui, schiavo, debole e malato”. E ancora: “Figlie ingrate! Hanno morso la mano che porgeva loro il cibo… ma io le castigherò senza pietà… Basta pianti! Devo attraversare tutto il deserto del mio dolore! Regan... Gonerill... vi ho dato tutto…”. Può bastare? In caso contrario, scorrete in su con gli occhi a rileggere il botta-e-risposta dei comunicati tra Rodolfo e Carlo De Benedetti: la faccenda probabilmente vi apparirà più nitida.

 

Il Lear di Shakespeare perde. Impazzirà definitivamente dopo che un bastardo (in senso proprio: figlio bastardo di un suo dignitario) gli avrà ucciso la buona figlia ritrovata. Mentre le eredi cattive, si immagina, continueranno a far affogare il regno tra lascivia e insipienza. Perché Gonerill e Regan da sole non possono vendicare Amleto, Laerte, Ofelia e tutti gli altri figli uccisi dai padri: è vero, loro hanno sconfitto il proprio tiranno, ma l’hanno fatto in nome di un potere corrotto e immorale, non inseguendo una sorta di purezza ideale come quella, per esempio, vagheggiata da Amleto.

Alla fine, resta da porsi una domanda: chi è Cordelia, nel nostro schema? La figlia “buona” è una donna rigida, forse troppo: ha stoffa regale e lo sa. E’ leale, ma non vuole piegarsi al volere del padre che le chiede di spendere roboanti (e magari false) parole per testimoniare la sua adulazione: “Amo mio padre né più né meno di come una figlia ama il padre”, risponde con inusitata secchezza. E, una volta cacciata, se ne va a consolidare altrove la sua fortuna. Onde tornare con un esercito ben altrimenti possente per riconquistare poteri e affetti. Insomma, se tutto questo non fosse un puro gioco letterario e se John Elkann non fosse titolare di un impero affatto diverso da quello di Lear, la nostra Cordelia sarebbe lui. Seduta sul fiume agitato dalla saga dei De Benedetti, pronto a riprendersi quel che è suo di diritto.