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Ma la carta non è morta

Stefano Cingolani

Non solo De Benedetti. Tutti vogliono un giornale, e il business sembra tornato più dinamico che mai

Ha ragione Carlo De Benedetti, ci vuole passione per possedere un giornale e per gestirlo, ci vuole anima, coraggio. Ma ci vogliono anche i soldi, e tanti. L’Ingegnere ha offerto 38 milioni di euro per il 29,9 per cento del gruppo Gedi che pubblica la Repubblica, ma i figli li hanno rifiutati. La Exor di John Elkann ha speso 405 milioni di euro quattro anni fa per il 43 per cento dell’Economist e le famiglie del Gotha industriale britannico (Cadbury, Rothschild, Schroder, Layton) li hanno accettati. Nel 2013 Jeff Bezos ha staccato un assegno da 250 milioni di dollari per il Washington Post, tutto in contanti e di tasca propria senza coinvolgere la cassaforte di Amazon. Un anno prima Warren Buffett, uno degli investitori più potenti d’America e del mondo, ha pagato 142 milioni di dollari (più altri 400 milioni presi in prestito dalle banche) per comprarsi 63 quotidiani, tutti locali perché crede ancora nella stampa e nell’informazione che parte dal basso. Lo stesso Buffett del resto, nel 1973, era diventato il secondo azionista del Washington Post dopo Katharine Graham quando lei aveva chiesto aiuto in pieno scontro con Richard Nixon. Laurene Powell, la vedova di Steve Jobs, con la sua fondazione Emerson Collective ha comperato l’Atlantic, il prestigioso magazine liberal per cento milioni di dollari. Marc Benioff cofondatore di Salesforce.com, l’anno scorso ha acquistato Time magazine insieme alla moglie Lynn. E che dire del re degli editori, Rupert Murdoch, che ha venduto tutto e si è tenuto i giornali, dal Wall Street Journal al Times di Londra? Dunque, nel pieno della grande trasformazione digitale che sta piegando la stampa e l’informazione, prostratasi davanti alla rete regina, c’è chi crede ancora nel vecchio giornale, quello che si tiene in mano, si legge sfogliando pagina dopo pagina, s’arrotola in tasca.

 

Nostalgie del tempo perduto? La storia è zeppa di magnati che si sono rovinati sull’altare della stampa contro la quale tutti sono pronti a sputare, ma alla cui malia nessuno sfugge. E oggi è ancor peggio perché si sta inaridendo la fonte principale che ha alimentato i giornali, cioè la pubblicità, e perché sono nati nuovi concorrenti dai canini affilati, prima la tv e adesso i social media. Eppure, c’è chi ce l’ha fatta, ha piegato quel destino che sembrava ineluttabile. E’ il caso di Bezos con il Washington Post, diventato il numero due negli States dopo il New York Times, testa a testa con il Wall Street Journal. Dunque, si può fare. Ma come? Perché Bezos è riuscito e un altro guru del web, Chris Hughes di Facebook, ha fallito con il New Republic? Perché denaro e internet non sono tutto, l’ingrediente fondamentale è vecchio come la stampa libera e si chiama contenuto.


De Benedetti, Jeff Bezos, Warren Buffett. Nel pieno della grande trasformazione digitale c’è chi crede ancora nel vecchio giornale 


La rete è un mezzo, un’autostrada capillare ed efficientissima per trasportare merci che si chiamano notizie, le quali però sono prive di senso se non vengono inserite in un contesto, irrorata di idee, analisi, confronto, cultura, politica certo e anche battaglia politica. E’ quel che Bezos ha spiegato non appena ha preso in mano il quotidiano. Non solo: lui che con Amazon ha succhiato una quantità enorme di risorse pubblicitarie, con il quotidiano ha abbandonato la pubblicità come fonte principale di denaro, puntando sui contenuti a pagamento. La parola magica è paywall, una sorgente stabile di entrate digitali con un giro d’affari proiettato oltre i cento milioni di euro l’anno. Ciò è stato possibile perché il Post ha scelto la qualità e i lettori si sono dimostrati disposti a pagarla. “Bezos è riuscito nell’impresa traducendo la strategia consumer-centric di Amazon in un nuovo approccio reader-centric, incentrato sul lettore, per il quotidiano. E’ il contenuto la vera killer app del nuovo Post sui cui si reggono tutte le altre”, ha scritto Marco Valsania sul Sole 24 Ore sintetizzando perfettamente la chiave del successo che ha portato nuove assunzioni non solo nel settore web, ma anche nella carta stampata, più giornalisti, più reporter, più analisti e commentatori, e più premi Pulitzer.

 

La vittoria di Donald Trump gli ha dato una mano insperata. E dal febbraio 2017 campeggia sotto la testata la frase “la democrazia muore nell’oscurità”. Il quotidiano che aveva fatto a pezzi il presidente Nixon, costringendolo alle dimissioni, è partito in quarta contro The Donald, diventando il suo tenace e battagliero avversario molto più del New York Times, con il quale Trump dialoga volentieri, mentre ha bandito il Washington Post e il suo patron Jeff Bezos, indicandoli come nemici. E pensare che il giornale è in mano a un repubblicano d’origine controllata come Fred Ryan, il quale si è fatto le ossa come capo dello staff niente meno che di Ronald Reagan (è ancora presidente della fondazione creata dall’ex presidente). Terminata l’esperienza alla Casa Bianca, Ryan si è dedicato alla tv finché nel 2007 non ha lanciato Politico, il giornale online più informato su quel che accade a Washington, l’unico a essere diventato una fonte autorevole (e temuta) sul Palazzo. Nel 2013 Ryan è stato nominato tra i cento uomini più influenti degli Stati Uniti e a lui si è rivolto Bezos per rilanciare il Post che non è, come i trumpiani amano far credere, una sorta di setta liberal e di covo dei democratici.

 

La proiezione web del giornale è migliorata enormemente. Gli utenti mobili sono balzati del 65 per cento in un anno, i millennials ne rappresentano circa un terzo. Il sistema di gestione del contenuto digitale ha fatto scuola, tanto che è stato offerto in licenza a terzi dando vita a una divisione di business che ambisce a generare a sua volta cento milioni di entrate. La piattaforma editoriale Arc ha conquistato 22 gruppi e testate, dal Los Angeles Times al Chicago Tribune o al Globe and Mail. Prova visibile che il Post è entrato di diritto nel triumvirato di marchi in grado di trasformarsi grazie alle strategie digitali. Gli altri due sono il New York Times edito da AG Sulzberger, ultimo erede della famiglia, e soprattutto tra gli autori del piano di innovazione del gruppo, e il Wall Street Journal di Rupert Murdoch.

Il modello del giornale posseduto da uomini d’affari e non da editori puri non è morto in Gran Bretagna e nemmeno in Francia

 

Torneremo dopo sullo “Squalo” che ha trovato pescecani più squali di lui, adesso facciamo un salto in una delle più antiche e prestigiose testate statunitensi, l’Atlantic, fondato ben 162 anni fa. Laurene Powell Jobs, dopo averlo acquistato, ha puntato sul paywall, e all’Atlantic non mancano i contenuti da far pagare, ma ha cercato di razionalizzare e concentrare: ciò vale sia per le storie da trattare sia per gli eventi da organizzare. L’obiettivo è competere direttamente con le maggiori testate su carta e online, puntando sulle notizie e rovesciando come un guanto una redazione abituata a un lavoro di lunga lena. Molti dei vecchi redattori hanno mollato e sono arrivate giovani leve soprattutto femminili: 17 dei 23 senior editor sono donne. Non è chiaro se la sfida riuscirà sul piano editoriale come su quello economico. Ma ci vuole tempo, bisogna partire subito in quarta per raccogliere i frutti dopo tre anni, come ha dimostrato Bezos, per questo è necessario avere imprenditori disposti anche a perdere quattrini oggi per guadagnare domani. I magnati americani credono ancora nella carta stampata. O forse sono tornati a crederci, nonostante una moria che ha toccato la creme del giornalismo, con un mercato pubblicitario crollato dal record di 49 miliardi di dollari in inserzioni nazionali del 2006 a 18 miliardi, tagliando ventimila posti di lavoro, oltre un terzo, dall’inizio nuovo secolo.

 

La parabola di Murdoch è un po’ diversa, lui il digitale non lo ha mai capito, meglio la tv, però alla fine è stato travolto da una macchina infernale. Venduto alla Disney l’intrattenimento, la 21st Century Fox ha ceduto anche la sua quota del 39 per cento in Sky a Comcast che ha messo sul tavolo 30 milioni di sterline. Murdoch ha tentato il contropiede lanciando la sua offerta su tutta Sky, ma non è stato in grado di reggere di fronte al colosso americano della tv via cavo. La partita qui si chiama streaming e Netflix. Anche se il magnate di origine australiana è stato il primo a puntare sulla pay tv in Europa, adesso cede lo scettro a operatori più forti e motivati. Lui si tiene la tv americana Fox, diventata il punto di riferimento dell’universo politico conservatore in America e soprattutto i giornali nella nativa Australia, negli Stati Uniti, nel Regno Unito, pigiando su tutti i tasti: il tabloid e il quotidiano autorevole, il Sun e il Times a Londra, il Wall Street Journal e il Post a New York e così via. News Corporation torna al centro dell’impero, anche se Murdoch è diventato azionista importante della Disney non potrà certo comandare sull’impero del vecchio zio Walt. E’ a corto di liquidità e per uno come lui che aborre i debiti è un problema. Esiste poi un problema di successione dopo la rottura con il figlio James che guidava Sky e adesso ha lasciato gli affari di famiglia. Il primogenito Lachlan si occupa di News Co., ma il vecchio Rupert, il padre padrone, a 88 anni non intende ridurre certo la sua influenza nell’impero che gli resta e nel mondo dei media in generale. Un altro ottantenne che resta sulla breccia, come in Italia Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti.


La parola magica è paywall, una sorgente stabile di entrate digitali con un giro d’affari proiettato oltre i cento milioni di euro l’anno


 

Sul destino dei giornali in Gran Bretagna incombe un funereo presagio da quando nel marzo 2016 l’Independent, posseduto dall’oligarca russo Evgany Lebedev, ha smesso di uscire nelle edicole, dopo trent’anni di gloriosa sia pur accidentata pubblicazione. Acciaccate, ferite, squassate, le altre testate resistono. Del Times abbiamo già detto, il Guardian controllato da una fondazione (il modello al quale guarda De Benedetti per la Repubblica una volta fatta sua), ha trovato un punto d’equilibrio tra la stampa e la sua brillante dimensione online, anche se le vendite si sono dimezzate dal 2009 e su carta non supera le 160 mila copie. Dall’anno scorso esce in formato tabloid e quest’anno può annunciare il ritorno all’utile dopo vent’anni. E’ rimasto ancorato alla sua collocazione lib-lab, è il giornale preferito dai laburisti anche se ora appoggia apertamente i liberali. Il suo concorrente sul fronte opposto resta il Daily Telegraph l’ultimo a uscire ancora nel tradizionale formato grande. Acquistato nel 2004 dai gemelli David e Frederick Barclay, miliardari che hanno fatto i quattrini nel commercio al dettaglio e con gli immobili, nel 2006 il Telegraph ha raggiunto l’apogeo nelle vendite, sfiorando il milione, poi è cominciata la discesa, ma questo non ha scoraggiato i Barclay Twins anche se il quotidiano ha vissuto anni turbolenti con continui cambi di direzione. Il modello tradizionale del giornale posseduto da uomini d’affari e non da editori puri non è morto in Gran Bretagna e nemmeno in Francia. Le Figaro, il quotidiano più longevo (fondato nel 1826) e più venduto, è controllato dal gruppo Dassault che produce aeroplani in pace e in guerra (dai Falcon ai caccia Rafale) dopo essere stato per decenni nelle mani del costruttore Bouygues. Il Monde, un tempo in mano alla cooperativa dei giornalisti, ora ha come azionisti di riferimento Mathieu Pigasse, l’uomo della gauche caviar al vertice della banca Lazar, e Xavier Niel, il fondatore di Iliad. La gauchiste Liberation fondata da Jean Paul Sartre è stata salvata da Edouard de Rothschild. Il fascino del fruscìo, con le pagine che sporcano le dita d’inchiostro non è stato soppiantato dagli schermi dei tablet. Non ancora.

Il vecchio Murdoch, il padre padrone, non intende ridurre la sua influenza nell’impero che gli resta e nel mondo dei media

 

L’esempio forse più solido e virtuoso viene dalla Germania dove pure la stampa sta attraversando la stessa crisi rigeneratrice che vive ovunque in occidente. Axel Springer l’editore più grande, non solo non molla né il paludato Die Welt né, tanto meno, la scatenata Bild, gallina dalle uova d’oro con i suo i due milioni di copie vendute, ma cresce e si rafforza nell’universo digitale dal quale proviene il 60 per cento del fatturato che sfiora i 4 miliardi di euro e il 70 per cento degli utili. Il gruppo è il primo editore d’Europa, la circolazione dei suoi giornali non ha eguali, con circa 12 milioni di copie, nemmeno in America. Ma una eccezione davvero rimarchevole è anche Der Spiegel: mentre in buona parte dei paesi dagli Stati Uniti all’Italia i settimanali sono stati fagocitati dai quotidiani, il magazine amburghese resiste e si consolida come uno dei più letti, venduti (con una circolazione che supera le 800 mila copie) e rispettati in patria e fuori. Di tendenza liberale, è riuscito a sposare come pochi giornalismo investigativo e analitico. Non lo amava il conservatore Franz Joseph Strauss (“E’ la Gestapo dei nostri tempi” diceva e fece arrestare il direttore e fondatore Rudolf Augstein colpevole di averlo sfidato nel 1962) né il socialdemocratico Willy Brandt che lo chiamava Scheissblatt, letteralmente giornale di merda. E’ l’esempio di una realtà editoriale che si regge sulle proprie gambe un po’ come la Allgemeine Frankfurter Zeitung, che fa capo a una fondazione ed è ancor oggi il secondo quotidiano più venduto con una circolazione di 250 mila copie, in un mercato caratterizzato da numerose testate con radici locali tra le quali spicca la Süddeutsche Zeitung di Monaco (345 mila copie in media nel 2018 più 46 mila digitali) nettamente inclinata verso il centrosinistra, tra liberali e socialdemocratici.

 

La Germania è una eccezione, la roccaforte di una stampa che resiste e non vuol morire? Non esattamente. E’ evidente che l’informazione è stata plasmata dai social media, ma è altrettanto chiaro che nell’oceano di notizie o pseudo tali che si sbattono l’una contro l’altra come le onde spazzate dai venti del nord, per non perdersi, per non affogare, c’è bisogno di un faro, anzi di molti fari. La testata di riferimento è il brand della merce informazione. Il giornale si legge sugli schermi? Vero, eppure continueremo a sfogliare le sue pagine di carta. Le penne stilografiche ancora esistono e vengono vendute. Sono tornati di moda persino i dischi in vinile. Al contrario di quel che si pensa comunemente, il progresso non macina e distrugge soltanto, ma è in grado anche di conservare e rigenerare. La stampa è morta, lunga vita alla stampa.

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