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Perché quando la Cina parla di business in realtà ha mire molto politiche

Eugenio Cau

Se guardiamo ai paesi che hanno firmato l’intesa sulla Via della seta cinese anni fa, c’è da preoccuparsi 

Milano. Mentre l’Italia si prepara a firmare il memorandum d’intesa con la Cina sulla Belt and Road Initiative (Bri), e il Quirinale tenta rassicurazioni last minute facendo sapere che dall’accordo sarà esclusa le tecnologia strategica del 5G, può essere utile guardare ai paesi che, in Europa, sono veterani nell’integrazione con la “diplomazia economica” cinese. La Repubblica ceca, per esempio, ha firmato il memorandum per la Bri nel 2015, quasi quattro anni fa, e da allora il suo rapporto con la Cina è stato più stretto che mai. Due giorni fa un think tank dell’Università di Praga chiamato Sinopsis ha pubblicato un dossier sui rapporti tra Repubblica ceca e Cina, e sugli effetti nel paese est europeo della diplomazia economica di Pechino a firma di Martin Hála e Jichang Lulu. L’analisi sembra confermare i peggiori sospetti di chi è contrario alla firma dell’Italia: gli anni recenti di collaborazione con Pechino hanno portato alla Repubblica ceca perdita di sovranità, interferenze politiche e nessun beneficio economico tangibile. L’avvicinamento tra Praga e il Partito comunista cinese è stato voluto dal presidente populista Milos Zeman, uno che in quanto a viaggi ufficiali in Cina fa impallidire il nostro sottosegretario sinologo Michele Geraci.

  

La logica della manovra politica di Zeman era: se firmiamo accordi con la possente economia cinese, la nostra economia comincerà a volare e diventeremo più indipendenti dall’odiata Europa (ricorda qualcosa?). Oltre a firmare il memorandum sulla Bri, Zeman entra nel 16+1, il network diplomatico tra la Cina e l’Europa dell’est. Il principale vettore degli investimenti cinesi in Repubblica Ceca è una compagnia chiamata Cefc China Energy e sospettata di essere legata al governo comunista, che comincia una campagna acquisti molto vistosa: fa affari immobiliari a Praga, compra una partecipazione nelle reti tv e una delle più importanti squadre di calcio del paese (ricorda qualcosa?). Soprattutto, Cefc comincia una campagna acquisti intensa dentro alla classe dirigente ceca: infiniti funzionari del governo vanno a lavorare per l’azienda, così come esponenti di importanti partiti politici e un ex ministro della Difesa, tutti cooptati dall’azienda cinese. Nel frattempo Zeman nomina il fondatore di Cefc, Ye Jianming, come suo consigliere personale. “Sembrava che lo stato ceco si stesse fondendo con Cefc”, si legge nel dossier.

 

Poi Cefc fallisce. I suoi dirigenti vengono beccati a distribuire tangenti in giro per il mondo (specie in Africa), e Pechino non può fare altro che agire. Ye Jianming viene fatto sparire, l’azienda crolla, ma viene “salvata” da Citic, il fondo d’investimento dello stato cinese. Risultato: tutti i gioiellini comprati da CEFC, che nominalmente era una compagnia privata, entrano nel portafogli del Partito comunista. Questo non significa, tuttavia, che l’economia ceca ne abbia beneficiato: gli investimenti cinesi nel paese sono infimi, e “di diversi ordini di grandezza inferiori rispetto ai fondi dell’Unione europea”. Inoltre, mentre i fondi Ue sono sovvenzioni, gli investimenti cinesi avvengono come acquisizioni o prestiti: il Partito comunista non regala niente. Dunque perché tifare per Pechino e non per Bruxelles?

 

Gli studiosi dell’Università di Praga tentano di spiegarlo quando parlano di “captured élite”: il Partito comunista ha una politica molto esplicita e molto efficace di corteggiamento della classe dirigente dei paesi in cui ha interessi e fa di tutto per ammassare alleati, lobbisti, politici amici. A Praga lo si è visto con il caso Huawei: mentre le agenzie d’intelligence del paese lanciavano avvertimenti e sconsigliavano l’utilizzo di forniture del gigante cinese delle telecomunicazioni, i politici cechi, Zeman in testa, difendevano appassionatamente la compagnia e criticavano la propria intelligence.

 

Dalla storia ceca si possono trarre alcune lezioni:
1. La diplomazia economica della Cina ha una doppia faccia. E’ presentata come business, ma in realtà è un’operazione di influenza politica e geopolitica. Non solo: mentre all’estero la propaganda cinese presenta iniziative quali la Bri come grandi operazioni di multilateralismo e armonia tra i popoli (“win-win” è la parola chiave), in patria ne parla come di un’adesione alla sfera d’influenza del Partito comunista.
2. La diplomazia economica cinese ha l’obiettivo di disarticolare le alleanze tradizionali e di sostituirle con un “network di rapporti bilaterali”. La Cina non negozia con l’Europa, negozia con i singoli stati, che da soli sono più deboli (questo piace molto anche a Donald Trump).
3. La diplomazia economica cinese ha trovato grandi adesioni tra i paesi sovranisti, ma per ora ha portato a riduzioni della sovranità.
4. La diplomazia economica cinese non ha portato vantaggi economici reali, e questo si può vedere non soltanto in Repubblica ceca, ma anche in paesi come il Pakistan e lo Sri Lanka, che sono entrati nel progetto della Bri con entusiasmo ma ora sono pieni di debiti e vorrebbero ritrattare il proprio ruolo.

  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.