Stefano Patuanelli (LaPresse)

Come perdere sovranità indebitandosi. L'inconsapevole ammissione di Patuanelli (M5s)

Luciano Capone

Il capogruppo del M5s intervistato dal Corriere sul memorandum firmato con la Cina. Due risposte lasciano esterrefatti 

Roma. Quando si leggono le dichiarazioni di questa nuova classe dirigente italiana ci si trova di fronte sempre allo stesso dilemma: bisogna prenderle sul serio oppure no? Quando un esponente del governo o della maggioranza parla è nel pieno delle sue facoltà mentali e ha piena consapevolezza degli argomenti di cui discute e del contesto in cui si trova, oppure è inconsapevole del significato delle parole che pronuncia e di ciò che ne consegue?

  

Un esempio di questo dubbio amletico è l’intervista del Corriere sul memorandum appena firmato con la Cina a Stefano Patuanelli, definito da molti come quello intelligente e preparato del M5s, e per questo capogruppo al Senato. Ci sono due risposte che lasciano esterrefatti. La prima riguarda la contraddizione di aver firmato un accordo con la Cina, nuova potenza colonialista, dopo aver fatto una campagna contro il presunto colonialismo della Francia. “La Cina non si muove con modalità colonialiste. È solo un paese in espansione economico-finanziaria”, è la risposta di Patuanelli.

  

Il capogruppo del M5s, lo stesso partito che ha montato una ridicola campagna contro il franco Cfa indicato come uno strumento imperialista, sembra essere completamente all’oscuro della “campagna d’Africa” cinese (descritta da Giulia Pompili sul Foglio). Attraverso il suo potere finanziario e i costanti investimenti in infrastrutture, la Cina ha acquistato una fortissima influenza sui governi africani e lo sfruttamento delle loro risorse naturali. Per comprendere quant’è forte l’egemonia cinese in Africa, basta considerare che in tutto il continente a riconoscere Taiwan è rimasto solo il minuscolo stato dello Swaziland.

   

E la penetrazione cinese, con il suo approccio colonialista, non si ferma solo all’Africa. Basta farsi un giro per i paesi del sud-est asiatico e dell’Asia centrale che, aderendo alla Via della seta, sono finite nella trappola del debito cinese: dopo aver ricevuto prestiti cinesi per finanziare le opere, gli stati non sono riusciti a ripagare il debito e sono stati costretti a cedere il controllo delle infrastrutture. Il caso più citato è quello dello Sri Lanka, dove oltre al porto di Hambantota il governo ha ceduto anche sovranità politica. Ma una sorte simile è toccata Tagikistan, Pakistan, Laos, Kirghizistan, Mongolia. L’influenza cinese arriva fino in Sud America e, grazie ai prestiti in cambio di petrolio, è l’unica fonte finanziaria del regime di Nicolás Maduro (strano che il M5s condanni l’ingerenza americana in Venezuela, ma non si preoccupi di quella cinese). Trattare la Cina come un paese in via di sviluppo – Patuanelli la definisce candidamente un “paese in espansione economico-finanziaria” – e non come la seconda potenza mondiale vuol dire prendere in giro i cittadini o non avere la minima idea del mondo in cui viviamo.

  

Ma la seconda risposta di Patuanelli è ancora più preoccupante. Alla domanda sul rischio di finire sotto ricatto cinese nel caso in cui Pechino acquistasse una quota del debito pubblico italiano, il senatore grillino risponde: “Certamente il debito pubblico italiano ha bisogno di un intervento e poco importa se in aiuto arrivino la Germania, gli Stati Uniti o la Cina”. Questa frase è così grave che merita di essere dissezionata. Nella prima parte – “Certamente il debito pubblico italiano ha bisogno di un intervento” – il capogruppo del M5s afferma che ormai il debito pubblico è fuori controllo: se necessita di “un intervento”, significa che siamo fuori da una gestione ordinaria. L’affermazione implica che le agenzie di rating, che ancora non hanno declassato i titoli italiani, e la Commissione europea, che non ha avviato la procedura d’infrazione, si sbagliano per eccessiva generosità. Praticamente l’Italia sarebbe invece in una situazione di pre-default: il debito non è sostenibile, i mercati non ci fanno più credito perché non hanno fiducia, e pertanto serve un’assistenza, un “aiuto”. E nella seconda parte della risposta, Patuanelli afferma che “poco importa se in aiuto arrivino la Germania, gli Stati Uniti o la Cina”. E d’altronde si tratta della stessa idea del sottosegretario della Lega Michele Geraci, colui che ha gestito le trattative con Pechino, che subito dopo la nascita del governo affermava con leggerezza che “la Cina ci può aiutare a gestire debito e spread” in sostituzione della Bce. Questa visione mostra l’approccio mendicante per la gestione del debito pubblico da parte di un governo che si presenta ai tavoli internazionali chiedendo l’elemosina.

   

Evidentemente chi governa non ha recepito la lezione del presidente della Bce Mario Draghi, che più volte ha spiegato che indebitarsi eccessivamente riduce la sovranità nazionale di un paese perché l’ultima parola nel giudicare i conti pubblici è affidata ai mercati, istituzioni non elette, fuori dal quadro democratico”. E ancor peggio, con la dichiarazione di indifferenza rispetto alla provenienza dell’“aiuto”, Patuanelli non si rende neppure conto della grande differenza che c’è nel cedere sovranità ai mercati, all’Unione europea, agli Stati Uniti oppure alla Cina. Probabilmente questa completa incoscienza può spiegare sia il grande sconcerto degli alleati rispetto alla fuga in avanti dell’Italia nella firma dell’accordo con Pechino, sia la beata meraviglia italiana rispetto alla reazione degli alleati.

   

Alla fine si ritorna al dilemma iniziale: non si sa se prendere sul serio le azioni e le dichiarazioni del governo italiano e della maggioranza che lo sorregge. Ma, soprattutto, non si sa cosa sia peggio.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali