Un ragazzo dello Zimbabwe si riposta dopo la lezione di danza del leone, a Dalian, nel nord est della Cina (foto Xinhua/Pan Yulong)

La campagna d'Africa

Giulia Pompili

I Cinque stelle accusano la Francia di neocolonialismo, ma la potenza che più si sta spendendo in investimenti e influenza è la Cina. Con l’aiuto (anche) del governo italiano

Gli errori di traduzione possono essere banali incomprensioni oppure lapsus calami, ovvero rivelare la realtà dei fatti. All’ultima China-Africa Friendly Night a Pechino, alle spalle del palco era posizionato un enorme cartellone scritto con caratteri cinesi e la loro traduzione in inglese. Quattro parole: “Innovation”, “Efficiency”, “Transcendence” e poi “Exploitation”, cioè sfruttamento. I caratteri cinesi posizionati sopra naturalmente volevano riferirsi all’“esplorazione” del continente africano, ma qualcuno ha pensato che la traduzione sbagliata, il refuso insomma, non c’entrasse nulla, e che l’errore servisse come messaggio diretto agli imprenditori e diplomatici invitati alla serata di gala. Gli organizzatori hanno negato la versione dietrologa, ma la fotografia nel frattempo è stata condivisa parecchio sui social network.

 

Sempre di più si parla della conquista cinese dell’Africa, e della capacità della Cina di sostituirsi ai tradizionali alleati (e sostenitori, in termini economici) degli stati africani. Il problema però è nella natura degli investimenti cinesi, e nella cosiddetta “trappola del debito”: le opere sono finanziate con prestiti cinesi, che se poi non possono essere ripagati costringono il paese a cedere quelle stesse infrastrutture. Il caso di scuola è quello dello Sri Lanka, e del porto di Hambantota: il governo di Colombo non è riuscito a ripagare il debito contratto con Pechino, e nel dicembre del 2017 ha dovuto cedere il controllo del porto. La Cina avrebbe avuto un ruolo anche nella grave crisi politica che c’è stata in Sri Lanka lo scorso novembre. 

 

Qualche tempo fa funzionari del governo giapponese, parlando informalmente con il Foglio, spiegavano l’attrazione dei paesi africani per gli investimenti cinesi con una teoria molto semplice: mentre i paesi occidentali, o comunque democratici, investono nello sviluppo e nella cooperazione, ed esistono naturalmente lungaggini, burocrazie, controlli, la Cina si presenta con soluzioni immediate. Costruisce strade, ponti, palazzi, tutte cose ben visibili che servono ai governanti locali ad avere consenso. Poco importa se poi, dove passano i soldi, passa anche l’influenza politica. L’ultimo Forum sulla cooperazione Cina-Africa che si è svolto a Pechino lo scorso settembre è stato una specie di rito di consacrazione della strategia del presidente Xi Jinping nel continente africano. Quasi tutti i capi di stato africani sono volati nella capitale cinese per omaggiare l’attivismo di Pechino: 60 miliardi di dollari promessi in aiuti, investimenti e prestiti per i prossimi tre anni.

 

Il 26 maggio del 2018 il Burkina Faso ha chiuso le relazioni diplomatiche con Taiwan – l’isola che si dichiara indipendente, e ha una sua struttura governativa ed è il centro della politica americana in Asia, ma che la Cina rivendica come suo territorio secondo la “One China Policy”. Dopo la decisione del Burkina Faso, tra i paesi africani a riconoscere Taiwan è rimasto soltanto un minuscolo regno dell’Africa del sud, lo Swaziland, ufficialmente Regno di eSwatini. L’isolamento diplomatico di Taiwan orchestrato dalla Cina è la dimostrazione che Pechino ha argomenti convincenti quando si tratta di politica internazionale.

 

Della conquista cinese dell’Africa si parla molto, e da molto tempo. Libro simbolo sul tema è quello dell’economista Dambisa Moyo, che nel 2012 ha pubblicato “Winner Take All: China’s Race for Resources and What It Means for the World”, una lunga analisi sulla corsa della Cina allo sfruttamento delle risorse naturali altrui, che a distanza di anni può essere considerata più che mai attuale. Nel 2014 il giornalista americano Howard French ha pubblicato “China’s Second Continent: How a Million Migrants Are Building a New Empire in Africa”. Un volume definito “straordinario” da Alexis Okeowo che sul New York Times all’epoca scriveva: “Howard French approfondisce la vita di alcuni di quel milione di immigrati cinesi che, secondo lui, stanno costruendo la propria carriera in Africa. In mezzo al dibattito sulle reali intenzioni della Cina nel continente (è imperialista o no?), sulle pratiche commerciali (corrotte o no?), il punto chiave della discussione, sostiene French, è stato ignorato: la vita reale di quei cinesi che si sono stabiliti e lavorano in Africa”. Secondo Okeowo “i personaggi incontrati e raccontati da French sono i più vari, “In Mozambico per esempio ha passato del tempo con Hao Shengli, esuberante imprenditore agricolo della provincia di Henan, che French definisce la versione cinese del ‘brutto americano’”. French, che è l’ex capo del New York Times in Africa e Cina, parla cinese, e sorprende i suoi intervistati: “Hao, per esempio, è sorprendentemente schietto. La pelle dei mozambicani è così ‘nera’ che si sentiva in imbarazzo all’inizio. E aggiunge: ‘Non pensavo fossero molto furbi o molto intelligenti, e stavo cercando qualcosa che fosse adeguato alle mie capacità. Ti immagini se fossi andato in America o in Germania? La gente lì è troppo intelligente. Abbiamo dovuto cercare paesi arretrati, paesi poveri che siamo in grado di governare, luoghi in cui possiamo fare affari, dove possiamo gestire le cose con successo”. Nel 2014 il volume d’affari tra Cina e Africa raggiungeva i 215,91 miliardi di dollari. Secondo l’agenzia di stampa cinese Xinhua, il 2018 è stato il nono anno consecutivo nel quale la Cina si è posizionata al primo posto come partner commerciale del continente africano, e sfiora i cento miliardi di dollari di volume complessivo. I progetti riguardano 30 mila chilometri di autostrade, 85 milioni di tonnellate all’anno di attività portuali, oltre 9 milioni di tonnellate al giorno di capacità di pulizia dell’acqua e circa 20 mila megawatt di generazione d’energia, oltre alla creazione di circa 900 mila posti di lavoro.

 

Mentre Matteo Salvini di tanto in tanto, e timidamente, parla di una sorta di “neocolonialismo” cinese in Africa, tra i Cinque stelle c’è più ottimismo. Tanto è vero che il governo giallo-verde ha firmato vari impegni con Pechino per la cooperazione in Africa, forte dell’“aiutiamo ad aiutarli a casa loro” – una contraddizione piuttosto evidente, se si accusa la Francia di fare i propri comodi nel continente.

 

Questa di seguito non vuole essere una mappa precisa, ma un affresco del lavoro capillare che sin dai primi anni del Duemila sta facendo la Cina in Africa.

 


Nella grafica, realizzata da Enrico Cicchetti, la mappa politica dell’Africa con un unico punto evidenziato, nel sud est del paese: lo Swaziland, cioè il Regno di eSwatini, l’unico paese africano che non ha relazioni diplomatiche con la Repubblica popolare cinese. 


 

Marocco. Entro il 2020 si inaugureranno i primi voli diretti tra la Cina e il Marocco. Questo perché il turismo cinese è cresciuto esponenzialmente, da 15 mila a 180 mila persone, dopo che il governo di Rabat e quello di Pechino hanno deciso di rendere più facili i visti turistici. Già nel 2017 Italia Oggi scriveva: “Da poco il Marocco figura sulla carta della nuova Via della seta, il grande progetto di espansione cinese voluto dal presidente Xi Jinping. Un memorandum è stato ufficialmente siglato il 17 novembre tra i due paesi”, e poi ne sono seguiti molti altri. Le mani cinesi puntano soprattutto al porto Tangeri Med, ma finora la Cina si è aggiudicata i lavori del porto di Kenitra e la linea di Alta velocità tra Marrakech e Agadir.

 

Algeria. E’ il primo paese del nord Africa per relazioni economiche con la Cina, il terzo di tutta l’Africa. La relazioni tra Algeri e Pechino sono storiche, sin dagli anni Novanta, rallentate solo dal terrorismo islamico. “Nel 2001, la quota della Cina nel commercio estero dell’Algeria era appena registrata. Nel 2016 la Cina è diventata il primo fornitore dell’Algeria, superando la Francia, che da tempo deteneva il primato per ragioni storiche e politiche”, ha scritto Gianni Del Panta su Reset Doc, “studiosi e giornalisti si sono concentrati su tre aspetti della veloce intensificazione della cooperazione sino-algerina: gli investimenti esteri diretti della Cina (Ide), le infrastrutture costruite da compagnie cinesi sul suolo algerino, l’arrivo di migranti cinesi nel paese”. A novembre 2018 la Cina ha donato 28,8 milioni di dollari all’Algeria come parte del contributo economico e tecnico.

 

Tunisia. A gennaio la Cina ha donato 40 milioni di dollari alla Tunisia per sostenere lo sviluppo del paese. Dopo molte strette di mano, il ministro degli Esteri tunisino ha sottolineato l’amicizia “esemplare” tra Pechino e Tunisi, e che l’adesione alla Belt & Road “aprirà nuove opportunità economiche”. La Cina costruirà un ospedale universitario a Sfax, una struttura culturale e sportiva a Ben Arous e l’Accademia di formazione diplomatica di Tunisi.

 

Libia. “Sette anni dopo aver rimosso l’uomo forte della Libia, l’occidente ha abbandonato i suoi sforzi sul terreno per ricostruire questo paese africano, lasciandolo distrutto dalla guerra civile, dal terrorismo e dall’instabilità politica. Quando arriva l’opportunità di un’economia nazionale che si sviluppa e l’inizio della ricostruzione, è tempo di coglierla. E’ in questo contesto che la Libia ha firmato un memorandum d’intesa con la Cina con la quale aderirà all’iniziativa Belt and Road”. Sono le parole spese dal Global Times per descrivere l’impegno cinese in Libia a metà luglio del 2018. Già ai tempi di Gheddafi Pechino aveva vari interessi nel paese, e si era schierata con la Russia contro l’intervento della Nato. Poi però, nel tentativo di proteggere nel corso del 2011 i suoi asset, aveva dato pure il suo sostegno al National Transitional Council. Nel 2018 le esportazioni di olio libico in Cina sono raddoppiate rispetto all’anno precedente, per un valore di 3,5 miliardi di dollari.

 

Egitto. Un paio di mesi fa è naufragato il progetto tra l’Egitto e la Cina per la costruzione di una nuova capitale amministrativa a est del Cairo. Per due anni se ne era parlato, il progetto aveva un costo da venti miliardi di dollari, ma alla fine – secondo la versione delle autorità egiziane – la China Fortune Land Development aveva concesso troppo poco all’Egitto: solo il 33 per cento dei ricavi dal progetto, e non il 40 come richiesto dal Cairo. Sono più di centomila i cinesi che vivono in Egitto, e i contratti finora firmati per la partecipazione del paese nel progetto Belt & Road arrivano a 18 miliardi di dollari. Sarebbero 10 miliardi di dollari gli investimenti diretti esteri nell’anno fiscale 2018-19, nell’anno precedente erano stati “solo” 7,9 miliardi. Sin dal 2017 la Cina è il maggior investitore del canale di Suez, e da anni ormai miliardi di investimenti finiscono nel China-Egypt Suez Economic and Trade Cooperation Zone, zona speciale considerata un “modello” di cooperazione tra i due paesi.

 

Sudan. Si è celebrato ieri il 60° anniversario delle relazioni diplomatiche con la Cina, e il Sudan è stato in effetti uno dei primi paesi africani ad aprire a Pechino. Già nel 2011 su Limes si leggeva: “La Repubblica Popolare Cinese è il principale partner commerciale del Sudan e quest’ultimo ha rappresentato per la Cina una vera e propria porta d’entrata al continente africano. Il voto referendario che ha sancito l’indipendenza del Sud Sudan non ha cambiato la situazione e il dragone asiatico si sta impegnando diplomaticamente affinché la separazione che avverrà in luglio non metta in dubbio la stabilità dei propri approvvigionamenti petroliferi”. La Cina sta facendo pressioni alle Nazioni Unite perché alleggeriscano le sanzioni economiche contro il paese.

 

Sudan del sud. Paese simbolo delle capacità di cooperazione e ricostruzione del Giappone, perché qui si è svolta la prima missione militare all’estero delle Forze di autodifesa di Tokyo dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Solo che oggi, a sentir parlare chi vive a Juba, la capitale del Sud Sudan, di giapponesi non se ne vedono, mentre la presenza cinese è ovunque.

 

Kenya. “Affacciato sull’oceano Indiano, il porto di Mombasa in Kenya è uno dei più grandi e più frequentati dell’Africa orientale”, scriveva pochi giorni fa su Quartz Abdi Latif Dahir. “Qui sono state ormeggiate quasi 1.800 navi nel 2017, con un carico di oltre 30 milioni di tonnellate – molte delle quali destinate alle nazioni vicine senza sbocco sul mare, tra cui Uganda, Ruanda, Burundi e Repubblica Democratica del Congo. Sin dalla sua apertura a metà del 1890, il porto si è sviluppato per essere un hub regionale in crescita e un elemento chiave nello sviluppo infrastrutturale del Kenya. A dicembre si è scoperto che il prezioso porto è stato utilizzato come garanzia per il prestito di 3,2 miliardi di dollari utilizzati per costruire la linea ferroviaria di 470 chilometri tra la città balneare e la capitale Nairobi. In un rapporto venuto fuori dall’ufficio del revisore generale, il Kenya avrebbe rischiato di perdere il porto se il prestito fosse rimasto insoluto, e l’Exim Bank of China ne avrebbe assunto il controllo per recuperare i ricavi”. Dal 2020 il Kenya insegnerà il mandarino nelle scuole primarie “per migliorare la competitività nel lavoro e facilitare il commercio e i collegamenti con la Cina”.

 

Tanzania. Sono partiti i collegamenti aerei diretti da poco, e il governo ha chiesto ai cittadini di imparare lingua e cultura cinesi per incentivare il turismo. Qui, mentre l’Europa blocca finanziamenti di cooperazione per questioni legate ai diritti umani, la Cina investe moltissimo. Il presidente John Magufuli è stato chiaro: “La Cina non pone condizioni nei suoi prestiti”. Il porto di Bagamoyo e il villaggio vicino sono nelle mani dei cinesi.

 

Uganda. A dicembre del 2018 anche qui il ministro dell’Istruzione ha detto di voler imporre lezioni di mandarino obbligatorio per le scuole superiori destinate all’internazionalizzazione. Pochi giorni fa il governo cinese ha completato il progetto che consentirà a più di 500 villaggi in Uganda di accedere alla televisione digitale. Il progetto si chiama Access to Satellite TV e riguarda 10 mila villaggi africani. Per il governo ugandese l’infrastruttura è fondamentale perché “consente ai cittadini l’accesso alle informazioni”, veicolate però dalla Cina. Il progetto è infatti tutto nelle mani della cinese StartTimes sotto la supervisione dell’ambasciata cinese di Kampala.

 

Gibuti. E’ la sede della prima base militare permanente all’estero della Cina. Sin dall’estate del 2017 qui si alternano soldati cinesi e personale civile, “il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha spiegato che la base servirà anche per ‘assicurare la protezione dei crescenti interessi cinesi all’estero’. Diplomat, un sito specializzato di cose asiatiche, ha scritto che Gibuti sperava da tempo in un maggiore coinvolgimento della Cina nella regione, visto che il governo cinese aveva già investito nel paese circa 15 miliardi di dollari per favorire l’espansione del principale porto e delle infrastrutture collegate”, si legge sul Post.

 

Etiopia. “Addis Abeba: la città che ha costruito la Cina”, titolava qualche mese fa la Cnn. La cooperazione è su tutti i settori, entro quest’anno l’Etiopia lancerà il suo primo satellite con l’aiuto cinese. La linea di credito fornita dalla Cina per la ferrovia che collega Etiopia e Gibuti è di 4 miliardi di dollari, da rimborsare in trent’anni. Dal 2000 i soldi prestati dalla Cina in Etiopia sono 12,1 miliardi di dollari.

 

Somalia. “La Cina ha sempre sostenuto la Somalia nel preservare la sua sovranità nazionale, la sicurezza e l’integrità territoriale”, ha detto il presidente cinese Xi Jinping incontrando l’omologo somalo Mohamed Abdullahi Farmajo a settembre. Il governo cinese ha costruito oltre 80 progetti infrastrutturali come ospedali, stadi e strade. Partecipa al pattugliamento anti pirati. In cambio, la Somalia ha dato l’autorizzazione alle navi cinesi di pescare nelle sue acque territoriali.

 

Repubblica democratica del Congo. E’ uno dei paesi su cui la Cina ha più influenza. Dopo le controverse a dir poco elezioni del dicembre del 2018, dopo la sentenza della Corte costituzionale, qualche giorno fa, Pechino si è congratulata con Felix Tshisekedi per la vittoria. La Cina a oggi controlla quasi tutte le miniere di rame del RD Congo.

 

Costa d’Avorio. Nel 2000 il debito della Costa d’Avorio nei confronti della Cina era pari a zero. Tra il 2010 e il 2015 è diventato di 2,5 miliardi di dollari. La questione non è passata inosservata in Francia, che è il più grande partner commerciale di Yamoussoukro. Ma il rapporto molto stretto per via dal passato coloniale è minacciato dalla presenza cinese, che ha avuto contratti per stadi di calcio, porti, impianti di acqua potabile, e da un paio di anni la pay tv cinese StarTimes ha rotto il monopolio televisivo di Canal+.

 

Gambia. Le relazioni con la Cina si sono ristabilite nel 2016, e qualche settimana fa il presidente Adama Barrow ha detto che i precedenti legami con Taiwan sono stati un “grosso errore” e ha ringraziato la Cina per tutto l’aiuto che ha dato al Gambia in seguito. Il Gambia ha già firmato per vari progetti per la Belt & Road.

 

Ghana. “Ci sono circa 6.500 ghanesi che studiano in Cina, e questo fa del Ghana, con una popolazione di 28 milioni, il primo esportatore africano di studenti del paese. La Cina è passata dall’essere un territorio sconosciuto al principale partner commerciale del Ghana, con il commercio bilaterale che è passato da meno di 100 milioni di dollari nel 2000 a 6,7 miliardi nel 2017” ha scritto recentemente David Pilling sul Financial Times. “Per descrivere la vicinanza tra i due paesi, il Quotidiano del Popolo sottolinea la costruzione della centrale idroelettrica di Bui da parte della Sinohydro Corporation e l’impianto termico Sunon Asogli da 200 megawatt, gestito dalla Shenzhen Energy Group”.

 

Angola. Parliamo di 23 miliardi di dollari di investimenti cinesi nel paese. Vuol dire 23 miliardi di debito. Senza considerare gli aiuti: un paio di settimane fa la Cina ha donato più di 14 milioni di dollari per il settore agricolo, e in cambio l’Angola ha eliminato la doppia tassazione per i cittadini cinesi. Già nel 2014 sul Sole 24 ore si leggeva: “Quando il premier cinese Li Keqiang è atterrato a Luanda, la capitale dell’Angola, ha sentito aria di casa. Tutto o quasi nel Paese africano uscito nel 2002 da una guerra civile durata 27 anni è made in China. Che si tratti del nuovo aeroporto internazionale di Luanda, della ferrovia che attraversa il paese da est a ovest o della nuova città di Kilamba, gigantesco agglomerato alle porte della capitale pensato per ospitare 500 mila persone, la progettazione e costruzione è sempre stata garantita dai giganti cinesi dell’edilizia e dell’ingegneria”. “La strategia di penetrazione economica della Cina in Angola fa leva su una precisa modalità d’intervento che ha lo scopo di trasformare il Paese, finanziariamente povero ma ricco di risorse, in uno dei principali partner per il gigante cinese”, ha scritto Giulia Lillo del Cesi. “La sfida per il governo Lourenço sarà conciliare la fruttuosa collaborazione con i partner cinesi sia con la necessità di diversificare le relazioni internazionali”, ed è in questa prospettiva che va letta la visita di questi giorni in Angola del presidente della Repubblica italiano Sergio Mattarella.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.