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Il protezionismo è una mela marcia

Redazione

I dissesti di Apple sono un monito per chi vuole risolvere i problemi con i dazi

Gli effetti della trade war di Donald Trump con la Cina hanno colpito Apple. Il titolo aveva perso il 10 per cento circa giovedì trascinando al ribasso Wall Street, ieri ha recuperato. Non è stata la normalizzazione della politica monetaria di quei “pazzi” della Federal Reserve (definizione del presidente americano) a preoccupare gli investitori, come pensava Trump. Ieri da Atlanta il capo della Fed, Jerome Powell, ha portato ottimismo parlando di una “congiuntura incoraggiante” e di essere pronto a sostenere l’economia con “flessibilità”. Sono le tensioni commerciali con la Cina ad avere inguaiato Apple e l’escalation retorica trumpiana ha avuto un ruolo. Le giovani generazioni di cinesi, sui social network, non nascondono di preferire i device dei campioni nazionali, come Huawei, a quelli della compagnia di Tim Cook, molto costosi e non più unici.

 

Il caso Apple segnala come l’interdipendenza economica tra l’America e Pechino si sia affievolita. Le compagnie americane, come Apple, avevano usato fabbriche in Cina per potere produrre a costi bassi e avere accesso a un mercato di consumatori in crescita. Ora la Cina ha produzioni nazionali e un mercato interno da rifornire. È secondo lo stesso principio dell’interdipendenza che Apple ora progetta di costruire gli iPhone migliori in India, un altro mercato con lavoro cheap e consumatori che potenzialmente si arricchiranno. La guerra commerciale ha rivelato una tendenza prima sottaciuta, e ha dimostrato che le politiche protezioniste danneggiano non soltanto chi ne è soggetto, ma anche (e forse soprattutto) chi le applica. Da questa consapevolezza nascono i colloqui bilaterali Stati Uniti-Cina a Pechino il 7 e l’8 gennaio. Infatti se Apple soffre, nemmeno la “old economy” gode.

Negli ultimi mesi le aziende americane hanno iniziato a trasferire i costi per le maggiori tariffe sui consumatori. Secondo i dati del Bureau of Labor Statistics, i prezzi dell’acciaio americano sono aumentati in media del 22,4 per cento fino a settembre. E così sono diventati i più alti al mondo, aumentando i costi di produzione per le aziende trasformatrici. Anche i prezzi delle lavatrici, bene di consumo simbolo dell’American way of life a metà del secolo scorso, sono aumentati perché produttori asiatici come Lg e Samsung hanno trasferito i maggiori costi (fino al 16 per cento) sui consumatori. L’espansione dell’economia americana, ora al suo nono anno e la seconda più lunga mai registrata, continua a creare posti di lavoro a livelli sostenuti (312 mila nuovi addetti a dicembre, massimo da febbraio) ed è in piena occupazione, l’aumento dei disoccupati (dal 3,7 al 3,9 per cento a dicembre) accade perché più persone escono dagli inattivi. La frenata non c’è, è per ora percepita dagli investitori, cui basta una tribolazione di Apple per pensare al peggio. In questo senso il protezionismo dissennato del “tariff man” non aiuta.

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