Un'area allagata a Kherson, in Ucraina (Roman Pilipey / Getty Images)

Terre bruciate, terre allagate

Dalla diga in Ucraina al “Cunctator”. La strategia millenaria delle catastrofi

Siegmund Ginzberg

Allagare il proprio territorio è una tattica militare vecchia come il cucco. La storia offre molti casi di tragedie compiute in nome del proprio interesse, utili da ripassare per capire meglio quello che è successo a Kakhovka

Il difficile non è solo riparare. Anche il solo procurare disastri naturali in guerra richiede un sacco di lavoro. Avevano cercato due volte di rompere gli argini del Fiume Giallo per rallentare l’avanzata dei giapponesi. Ma il fiume, pur già gonfio per le piogge estive, non ne voleva sapere di esondare. Gli argini erano enormi terrapieni, rialzati e rafforzati nel corso di secoli di “dispotismo idraulico”. Gli esplosivi non funzionavano, bisognava scavare a mano, reclutando a forza migliaia di contadini. Ci avevano provato ben due volte, agli inizi di giugno, ma senza esito. Finalmente riuscirono ad aprire una breccia il 9 giugno 1938. Ma l’acqua defluiva ancora troppo lentamente. Ci vollero giorni perché il fiume si aprisse un varco sufficiente ad allagare l’intero territorio, alla ricerca di un nuovo sbocco al mare. Sommerse 9 province, tra le più popolose e fertili della Cina, in tre regioni: Henan, Anhui, Jiangsu. Tratteggiata sulle mappe, l’area allagata somiglia in modo impressionante alla forma di quella inondata dal Dnipro dopo il sabotaggio della diga di Kakhovka. Solo è molto più grande, dieci volte più estesa. I fiumi sono uno diverso dall’altro. Ma l’impronta della loro ferocia si assomiglia.

 

Nessuno aveva avvertito le popolazioni dei villaggi che stavano per essere sommersi. L’operazione era un segreto militare. Non volevano che trapelasse la voce agli invasori. Temevano che i giapponesi potessero accelerare l’avanzata anziché sospenderla.  All’inizio ci fu una sottovalutazione anche da parte di coloro che vedevano arrivargli l’acqua in casa. “Quando il Kuomintang ruppe gli argini del Fiume Giallo ero piccolo. Quando vedevo i soldati mi facevano paura. Ogni giorno andavano a scavare. Passavano per i villaggi e con i fucili spianati sequestravano pale e picconi. Il nostro villaggio era giusto di fronte agli argini. Quando l’acqua cominciò a venir fuori non era tanta. La gente non se ne preoccupava, dicevano che sarebbe passata. Poi crebbe e crebbe. E la gente cominciò a scappare in zone più elevate. Alla fine furono inondate anche quelle. E allora le gente si rese finalmente conto della crudeltà del Fiume Giallo”. Per molti fu troppo tardi. Così la testimonianza, raccolta molti anni dopo, di uno che all’epoca era bambino. L’obiettivo era interrompere le due grandi linee ferroviarie da cui affluivano i rinforzi e i rifornimenti dei giapponesi, e rendere impassabili i campi e le strade per i mezzi corazzati e le truppe meccanizzate. Strade percorribili da mezzi pesanti da quelle parti non ce n’erano nemmeno negli anni 80, quando facevo il corrispondente dalla Cina, e vissi a lungo in un villaggio dello Jiangsu. Ancora allora il trasporto si faceva a braccia o via acqua. Si trattava di dare ai nazionalisti di Chiang Kai-shek il tempo di evacuare Wuhan (sì, sempre Wuhan, quella del Covid). Era la capitale provvisoria in cui il governo si era trasferito dopo aver abbandonato Nanchino, la capitale precedente, a uno dei più atroci massacri di popolazione civile (un quarto di milione di vittime), di stupri e saccheggi di tutta la storia. Pechino e Shanghai erano già da tempo in mano giapponese. Per il resto della guerra la capitale sarebbe passata a Chongqing, assai più in alto sul corso dello Yangtze, nel Sichuan circondato da montagne.

 

“Facciamo saltare gli argini o perderemo tutta la Cina”, avevano sostenuto i vertici militari. Le cose probabilmente stavano così. Sacrificare migliaia di cinesi per salvare la nazione intera. In realtà ne sacrificarono centinaia di migliaia, milioni se si calcola coloro che morirono per le alluvioni degli anni successivi. Si calcola che in Henan, Anhui e Jiangsu morirono affogate 800.000 persone. I morti civili furono più dei soldati uccisi in tutte le battaglie combattute in tutta la Cina. Ma il peggio venne dopo. Piove, si sa, sempre sul bagnato. I disastri tirano altri disastri. Negli anni successivi le precipitazioni furono di parecchio superiori alla media. Si susseguirono alluvioni, l’una più catastrofica dell’altra. Era stato indebolito un intero sistema idraulico curato nei secoli, una dinastia dopo l’altra. Si succedettero, fino al 1940-42, le carestie dovute alla perdita di un quinto delle migliori terre coltivabili del paese. Il resto lo fecero l’inquinamento, la mancanza di acqua potabile, le epidemie (malaria, colera, tifo, ogni tipo di dissenteria).

 

Da quelle parti d’estate fa un caldo boia, piove, c’è un’umidità pazzesca. Gli acquitrini diventano immediatamente colture di zanzare, la decomposizione dei cadaveri di uomini e animali gonfiati dalle acque diventano colture di ogni tipo di germi letali. Se si sopravvive fino all’inverno si fa in tempo a morire, più lentamente e più dolorosamente, di fame, o di polmoniti. L’alluvione si era verificata in giugno, quando le messi stavano per maturare. Tra i sopravvissuti una famiglia su quattro aveva perso tutto. In molti milioni furono costretti a emigrare, a vivere di elemosina o vendersi (vendere i figli, anzi soprattutto le figlie, era allora una tradizione). C’è chi, tra gli storici, l’ha definito il più grande disastro naturale, dovuto a una decisione militare, della storia della Cina. Forse del mondo. I giapponesi in effetti furono fermati. Per sei mesi. Gli invasori presero comunque Wuhan. Ma gli era difficile rifornire le proprie truppe. Per di più erano sommersi da maree di profughi. Tutto quel che volete sapere sull’argomento, e sugli effetti alla lunga, li trovate in un recente approfonditissimo studio dello storico e sinologo di Oxford Micah S. Muscolino (The Ecology of War in China: Henan Province, the Yellow River, and Beyond 1938-1950, Cambridge University Press 2016).

 

Come per la diga di Kakhovka, all’inizio non era chiaro chi avesse deliberatamente prodotto il disastro. Il “fuoco amico”, sparare sui propri soldati e la propria popolazione, è un errore. Di cui ci si dice dispiaciuti, e talvolta ci si scusa. La “strage naturale amica” è più imbarazzante. Si cerca quando possibile di attribuirla al nemico. Se non funziona la si trasforma in mito eroico. Ora si sa, è documentato, che l’ordine di rompere gli argini del Fiume Giallo venne direttamente da Chiang Kai-shek. Ma all’inizio la versione ufficiale del governo nazionalista cinese, quella fornita ai giornali, aveva attribuito la responsabilità ai bombardamenti giapponesi. Poi, quando era impossibile negare l’evidenza, corressero il tiro. Dopo il 1945, finita la guerra contro i giapponesi, la grande “alluvione amica”, procurata dai difensori, divenne un simbolo dei “sacrifici” sopportati dal popolo cinese per difendersi dall’aggressione giapponese. Interessante che tra le molte malefatte attribuite dai comunisti di Mao al Kuomintang di Chiang dopo che ridivennero nemici per la pelle, questa non figuri. Ammazzare milioni di innocenti per difendere l’interesse nazionale era considerato sacrosanto, non turbava minimamente i sonni e le coscienze dei rivoluzionari (e nazionalisti). Mao considerava gli imperialisti “tigri di carta” (talismani tradizionali contro demoni e fantasmi) di cui non si deve avere paura. Riteneva che non avrebbero avuto il fegato di sganciare atomiche sulla Cina, come pure avevano fatto col Giappone. Disse che, anche l’avessero fatto, su 600 milioni di cinesi (tanti erano allora) ne sarebbero sempre sopravvissuti almeno 50 milioni. Non ho dubbi che dicesse sul serio.

 

Un altro esempio di “militarizzazione” di un grande fiume, e di ricorso deliberato, a fini bellici, a una catastrofe naturale procurata, risale al secolo precedente. In America. Non era una guerra per respingere un’invasione straniera, né una guerra per l’indipendenza, ma una guerra civile tra americani, la più sanguinosa di tutta la loro storia. Erano gli anni 60 dell’Ottocento. Per sgominare gli eserciti del Sud secessionista il generale Ulysses Grant, che poi sarebbe divenuto presidente degli Stati Uniti, decise di “passare alle cattive”. Assegnò al suo subordinato William Tecumseh Sherman il compito di fare terra bruciata per costringere il Sud alla resa. Gli storici la chiamano “hard war strategy”, strategia di “guerra dura”, un termine che ricorre nello scambio di lettere tra i due generali. La spietata “marcia verso il mare” di Sherman, attraverso il North Carolina e la Georgia, aveva lo scopo dichiarato di scoraggiare la popolazione del Sud, fargli sentire sulla propria pelle quanto gli sarebbe costata la guerra. Si lasciò dietro una scia di distruzione e di morte. Il suo esercito aveva l’ordine di bruciare sul suo cammino le città (tra cui Atlanta, il cui incendio è immortalato in Via col vento), di distruggere le infrastrutture e i raccolti, di rendere inagibili i campi di cotone.

 

Tutte le cattiverie possibili insomma, per fargli passare una volta per tutte la voglia di ribellarsi a Washington. Le sue truppe avevano licenza di saccheggiare le città e le residenze dei grandi proprietari del Sud, violentare le donne, uccidere a vista chiunque opponesse resistenza. Si fosse trovato a comandare le truppe russe in Ucraina non avrebbe esitato a ordinare stragi “educative” come quella di Bucha, la distruzione di tutte le centrali elettriche, e di intere città come Mariupol e poi Bakhmut. Uno degli obiettivi più tartassati era stato Vicksburg, il principale nodo di rifornimenti per gli eserciti del Sud. Avevano provato a farlo con un’opera titanica di ingegneria idraulica, scavando un canale che accorciasse il corso del Mississippi tagliando fuori Vicksburg. Gli costò caro: le vite di molti soldati del Nord, non abituati al caldo appiccicoso, alle zanzare e alla malaria del Sud, e le vite di moltissimi schiavi neri liberati e reclutati a forza nel lavoro di scavo. Oltretutto fu un vero e proprio disastro ecologico, ben documentato da Lisa M. Brady in War upon the Land: Military Strategy and the Transformation of Southern Landscapes During the American Civil War (University of Georgia Press, 2012).

 

Annegare deliberatamente le proprie terre, distruggere le proprie messi, bruciare le proprie case, sgozzare le proprie greggi e mandrie, avvelenare i propri pozzi, magari ammazzare le proprie donne e i propri figli per impedire che cadano in mano nemica, è una tattica militare vecchia come il cucco. “Avvelenare i pozzi” è un’espressione che ricorre nella Bibbia, a proposito di tattiche d’assedio o di ritirata. Di fronte all’invasione delle falangi macedoni di Alessandro, i consiglieri militari di Dario avevano a lungo discusso se applicare “la maniera degli Sciiti” (cioè distruggere il proprio territorio per rendergli impossibile di avanzare) o affrontare gli invasori in battaglia campale. Scelsero quest’ultima strategia. E così i persiani persero la guerra e l’Impero. L’espressione “far terra bruciata” risale a un passo in cui Tito Livio racconta l’ordine dato dal dittatore Quinto Fabio Massimo, detto Cunctator (il Temporeggiatore), per impedire il dilagare dell’esercito di Annibale dopo la tremenda sconfitta di Canne: abbandonare, sul possibile percorso di Annibale, anche i campi, ma solo dopo aver incendiato e distrutto tutto (“ex agris quoque demigrarent omnes regionis eius qua iturus Hannibal esset tectis prius incensis ac frugibus corruptis”, Ab Urbe Condita Libro XII, capitolo 11).

 

Quanto ad Annibale, non era da meno nel bruciare le città italiche che si ostinavano a mantenersi fedeli ai romani e a non allearsi invece con lui. Leggenda vuole che Scipione ordinasse di cospargere di sale le rovine di Cartagine distrutta. Ma non è vero: la demolirono sì fino alle fondamenta, e uccisero o trassero in schiavitù gli abitanti, ma la faccenda del sale è una assai più tarda abitudine medievale. Leonardo da Vinci preparò per Venezia un progetto di allagamento del Friuli in caso di invasione turca. Machiavelli rispolverò un altro progetto di Leonardo: deviare l’Arno per consentire ai fiorentini di prendere Pisa per sete. Terra bruciata era la tattica con cui Kutuzov rovinò la logistica della Grand Armée di Napoleone e dei suoi alleati in Russia. Furono i russi a incendiare Mosca, perché Napoleone non godesse della sua più preziosa conquista. Terra bruciata, smantellamento di tutte le fabbriche, esodo forzato della popolazione e inondazione di vaste parti dell’Ucraina furono la tattica usata da Stalin per difendersi dall’invasione hitleriana nel 1941. Lo stesso fecero poi due anni dopo i tedeschi in ritirata nel vano tentativo di arrestare sulla linea del Dnipro l’avanzata russa dopo Stalingrado. I nazisti avevano piani per far saltare le dighe e inondare parte dell’Olanda al fine di contrastare l’avanzata alleata dopo lo sbarco in Normandia. Non lo fecero. Probabilmente perché a quel punto non gli sarebbe più servito a nulla. Ci fu chi avanzò, per il dopoguerra, piani per allagare parte della Germania, e trasformarla in un paese agricolo, senza più alcuna capacità industriale. Ma anche di questo non si fece nulla. Si limitarono a spaccarla in due.

 

All’inizio della guerra gli ucraini avevano allagato ampie aree tutt’intorno alla capitale per impedire agli invasori russi di raggiungere Kyiv. Quanto alla diga di Kakhovka, Mosca e Kyiv si accusano reciprocamente. Pare che la diga fosse in mano russa al momento dell’esplosione e che per aprire un varco come quello era necessario farla esplodere dall’interno. Un missile o cariche piazzate dall’esterno non le avrebbero fatto un baffo. Era stata progettata in epoca sovietica per resistere a un attacco nucleare. E gli esperti di cose militari concordano nel ritenere che in questa fase della guerra, con una controffensiva ucraina in corso, e i russi invece trincerati per respingerla, allagare le terre a sud del Dnipro fosse strategicamente più nell’interesse dei russi, che degli ucraini. Ma comunque capita a tutti di far male i propri calcoli. Poco dopo l’apertura della falla di Kakhovka sono state diffuse, da parte ucraina, intercettazioni di una conversazione tra ufficiali russi sul canale Telegram in cui uno dice che “se la sono fatta saltare loro (gli ucraini)” e l’altro replica deciso: “No. Sono stati i nostri (i russi)”. “Dici davvero? Mosca dice che sono stati loro”. “No. Siamo stati noi, avevamo un reparto di sabotatori sul posto”, gli replica l’altro. E subito dopo si lascia sfuggire che hanno esagerato, qualcosa non è andato secondo i piani, anzi “è andato oltre i piani”. Ipotizza che i russi si siano dati la zappa sui piedi, e abbiano messo in difficoltà le proprie posizioni quanto e più di quelle dei nemici. Soprattutto se ne andasse di mezzo l’impianto nucleare di Zaporizhzhia. Sarebbe la prima catastrofe nucleare procurata apposta.

Di più su questi argomenti: