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Trovate Ortensia!

Il caso Zanotti. Come salvarsi dall'idea di letteratura diffusa dall'università

Matteo Marchesini

Come l'Ariosto di una Pisa studentesca, lo scrittore racconta un gruppo di ventenni impegnato nell'educazione sentimentale. Ma non chiamatelo romanzo giovanile

Ponte alla Grazie ha da poco pubblicato Trovate Ortensia!, un romanzo giovanile di Paolo Zanotti. Ma la definizione in questo caso è malinconicamente inadeguata. Studioso di letteratura e narratore di grande talento, Zanotti non ha fatto in tempo a invecchiare: è morto dieci anni fa a soli quarantuno anni. Ha fatto però in tempo a lasciare un’opera che definisce pienamente una personalità e un mondo. Nel 2010 è apparso il suo romanzo Bambini bonsai; subito dopo la morte, sempre Ponte alle Grazie ha stampato un lavoro precedente, Il testamento Disney; e in seguito sono usciti da Pendragon i racconti di L’originale di Giorgia. Trovate Ortensia! segna un altro passo a ritroso nella riscoperta di Zanotti: si tratta infatti di un romanzo steso dall’autore nella seconda metà degli anni 90, prima dei trent’anni. In questo senso è giovanile; e lo è anche se confrontato col resto della sua narrativa. Oltre all’ambientazione nella Pisa universitaria, troviamo qui l’esuberanza dello studente che lascia bene in vista la sua attrezzatura culturale: il citazionismo (a partire dal titolo rimbaudiano), la trasposizione goliardica del gergo pisano (con tanto di glossarietto finale), e una lunga riflessione su “Racconto d’inverno”, la pièce shakespeariana messa in scena dai personaggi, che diventa chiave interpretativa della vicenda extrateatrale. Ma Trovate Ortensia! non è un romanzo giovanile nel senso comune del termine, perché straordinaria è la maturità con cui Zanotti dispone la sua materia.

 

Chi conosce il mondo di questo scrittore sa che la sua stagione è l’infanzia: non solo quella dei bambini, ma anche quella dei trentenni. Calvinianamente, le zone torbide dell’adolescenza e dell’età adulta vengono da Zanotti rimosse, sublimate o ricondotte alla radice nitida e struggente dell’unica età dell’oro. In Trovate Ortensia!, però, i protagonisti sono dei ventenni: ed è ben difficile togliere il torbido da questi giovanotti zazzeruti e arrapati. In effetti il romanzo trabocca di iperboli guascone, di feste sudaticce, di sesso. Eppure, che strano. Perfino il sudore e lo sperma sembrano evanescenti materie celesti; perfino i personaggi più infoiati somigliano ad aerei spiritelli scespiriani. Se, come si dice a un certo punto, “La Grazia dev’essere un ormone”, qui gli ormoni si dissolvono in grazia. Come mai, ci si chiede leggendo, tutto è così corporeo e malgrado ciò così impalpabile? Il fatto è che il narratore guarda le sue creature come dalla stratosfera. Tutto gli diventa nella penna un puro gioco di linee, di arricciolate sagome da fumetto: le metafore più distanti si amalgamano in un’uniforme scorrevolezza, gli innumerevoli eventi rocamboleschi si riducono a un gioco d’ombre, le vicende più mostruose non sono che uno svolazzo sulla carta… Ma non è Ariosto, questo? Ecco, Zanotti è l’Ariosto della sua Pisa studentesca. E c’è anche un’Angelica che fugge, Ortensia appunto, la mitica sorellina di tutti i libri zanottiani, proposta qui nella versione di vampiro.

 

Curiosamente, però, è proprio questa creatura disincarnata a possedere l’unica vera, palpabile carne del romanzo. Ortensia è un fatale catalizzatore di eros. E se è vero che ha delle illustri antenate gotiche, è vero anche che il suo tipo allude all’immaginario di quegli anni 90 di cui qui si respira l’atmosfera ovunque. La ninfetta anoressica, disinibita quanto impassibile, è in fondo una Kate Moss oscura e infantile, un mito erotico della generazione di Zanotti e della nostra. In Trovate Ortensia! tutto è buffo, gioioso, fiabesco, e tutto è spettrale, hanté come il mondo di zombi del primo Parise: una “trascendenza parziale” fa di continuo incontrare vivi e morti nelle stesse strade. Lo sguardo lontano di Zanotti, che è in parte lo sguardo del personaggio di Giacomo, ha in sé la tristezza irreparabile dell’escluso, di colui che guarda la vita studentesca dalla soglia: il prezzo per non prendere sul serio i drammi è viverli solo virtualmente, con una straziata nostalgia. Per chi guarda così, l’appagamento non è letteralmente di questo mondo.

 

E i “pastrocchioni sovrannaturali” dell’ultimo Shakespeare rappresentano allora l’utopia di una vita che possa saltare direttamente dalla fiaba dell’infanzia a quella riposata e magica della vecchiezza, senza doversi mischiare con le futilità corpulente della realtà adulta. Ultima osservazione. Tra i tanti aspetti notevoli del caso Zanotti ce n’è uno che viene poco sottolineato, e pour cause. L’idea di letteratura che ha prevalso nelle università di fine Novecento (mescolanza dei generi, insistenza sulla narratologia, geometrie calviniane più manierismo nabokoviano o cortazariano) ha quasi sempre sterilizzato la scrittura, seminato equivoci ed errori, prodotto noiosi relitti scolastici. Ma in Zanotti no: in lui questi aspetti coincidevano naturalmente con il suo immaginario. Lo studioso e il narratore attingevano allo stesso bacino. Segno che qualunque poetica è buona, purché funzioni. E qui funziona a meraviglia.