Sue Lyon è Lolita nel film di Stanley Kubrick (1962), tratto dall'omonimo romanzo di Nabokov

Le grandi lezioni di Nabokov contro le guide turistiche del conformismo

Edoardo Rialti

Severo con Dostoevskij, innamorato di Gogol’: l'autore di Lolita fu “l’unico scrittore il cui orologio tiene il tempo degli innumerevoli orologi dei suoi lettori”

“Davvero: di tutti i personaggi creati da un grande artista, i migliori sono i suoi lettori”. All’uscita del precedente volume Adelphi sulle lezioni americane di Nabokov, dedicate alla letteratura inglese, francese e tedesca, proprio sul Foglio avevo affermato che semplicemente percorrerlo suscitava un respiro di sollievo, come quando in mezzo a una cacofonia di suoni banali s’incappa in una nota limpida cui aggrapparsi, un refrigerio che costituisce pure uno strumento di resistenza mentale. Anche questo volume (a cura di Cinzia De Lotto e Susanna Zinato) dedicato al breve incandescente miracolo della letteratura russa ottocentesca – la quale, è già stato notato, inizia quasi allegoricamente con Le Anime Morte e termina con Resurrezione – tra i suoi tanti pregi comprende quello di essere uno dei migliori manuali di scrittura che conosca, ben oltre tante pretese trattazioni teoriche, proprio perché ausculta con la sensibilità di un narratore di genio le correnti carsiche che percorrono la vita stessa dei libri, persino nelle idiosincrasie di Nabokov stesso.

 

Il lettore appassionato di Dostoevskij non può fare a meno di scuotere il capo e domandarsi come sia possibile che l’autore di Lolita veda così poco in quello dei Karamazov. Tuttavia chi detesta qualcosa, se reagisce così a partire da una sensibilità aguzza e intensa, sa cogliervi elementi importanti, che obbligano l’estimatore a smontare i propri assensi più istintivi e domandarsi il perché della propria predilezione. Anche questa raccolta è un lungo inno alla complessità radiosa e inquietante della letteratura, contro “le guide turistiche” delle edificanti superficialità che spesso vengono spacciate come realistiche, intense o audaci. La sensibilità di un artista nasce infatti dalla “frattura tra i suoi valori eterni e le sofferenze di un mondo smarrito”, un abisso che è sempre faticoso da contemplare e suscita le reazioni stizzite dei poteri laici e religiosi, ma la società zarista, con tutti i suoi difetti, “bisognava riconoscere che possedeva una notevole virtù: mancava di cervello”.

 

Eppure non era solo dalla censura reazionaria che Puškin o Turgenev sarebbero stati attaccati: “Se nell’opinione dello zar gli scrittori dovevano essere al servizio dello stato, nell’opinione dei critici radicali dovevano essere al servizio delle masse. Le due linee di pensiero erano destinate a incontrarsi”. Il Novecento vede la manovra a tenaglia di un ottuso e aggressivo conformismo in fondo sempre uguale, che sbocci da destra o sinistra, conservatorismo o progressismo: “In realtà Lenin in arte era un filisteo, un borghese, e fin dall’inizio il governo sovietico stava gettando le basi per una letteratura rozza, provinciale, controllata dalla polizia, totalmente conservatrice”. La società capitalistica occidentale non sarà da meno col suo “stile giornalistico che cresce come una slavina” e le sue annacquate banalità per “lusingare i pigri e fare a pezzi i grandi.” A tutto questo, Nabokov oppone l’inesauribile fontana immaginativa di Gogol’, che sa costantemente farci scorgere persone che non ricompariranno più nelle sue pagine, come i fari d’una macchina nel buio, come una libreria intravista dalla strada: “Così termina il capitolo – e quel tenente è ancora lì che si prova i suoi immortali stivaloni, e il cuoio brilla, e la candela brucia dritta e lucente nell’unica finestra illuminata di una città morta, nel cuore di una notte spruzzata di stelle. Non conosco descrizione della quiete notturna più lirica di questa Rapsodia degli Stivali”.

 

Accennando quanto sarà poi analizzato e stimato da George Steiner, nota con biasimo che “il metodo usato da Dostoevskij nel trattare i suoi personaggi è quello di un drammaturgo. Quando ne introduce uno, dà sempre una breve descrizione del suo aspetto, poi quasi non torna più a occuparsene”. Un’impazienza e imprecisione commiste a sadismo, gongolante pietà, nazionalismo messianico. Certamente, “uno scrittore è perduto quando comincia a interessarsi a questioni del tipo ‘Che cos’è l’arte?’ e ‘Qual è il dovere di un artista?’”, ma c’è differenza per Nabokov tra gli scrupoli che come un cancro divorano gli ultimi anni di Gogol’ e i “tentacoli etici” di Tolstoj: “Quella verità era lui, e questo lui era arte”. Egli resta “l’unico scrittore che io conosca il cui orologio tiene il tempo degli innumerevoli orologi dei suoi lettori”.

 

I paragrafi dedicati alla differenza tra lo scorrere degli eventi per i personaggi singoli e quelli a coppie offrono una di quelle intuizioni per cui ci si rituffa in un grande testo e si colgono e godono gli sbalzi di temperatura, come in mare. “Quello che vediamo in tutti i racconti di Checov è un continuo inciampare, ma è l’inciampare di chi ha gli occhi fissi alle stelle” e mentre un autore mediocre viene lodato per una scialba sequenza di acrobazie, questi “riusciva a comunicare un’impressione di bellezza artistica di gran lunga superiore a quella di tanti scrittori convinti di sapere cosa sia una prosa ricca e bella. Lo fece tenendo tutte le parole nella stessa luce fioca e nella stessa tonalità di grigio, una tonalità tra il colore di un vecchio recinto e quello di una nuvola bassa”. Riflettendo sul proprio inglese di esule e il russo nativo, Nabokov li paragona alla differenza tra “una villa bifamiliare e una tenuta ricevuta in eredità” e questo gli consente con una battuta di fare piazza pulita di tante idiozie espresse ultimamente sui requisiti identitari o biografici di un traduttore, su cosa consenta a una voce di incarnarne un’altra: “Prima di tutto deve possedere altrettanto talento, o almeno lo stesso tipo di talento dell’autore scelto”. E poi si continuano a leggere cose come “il guaio è che i fatti nudi non esistono allo stato di natura, poiché essi non sono mai per davvero del tutto nudi: la traccia bianca lasciata da un polso, un pezzetto arricciato di cerotto su una spellatura a un calcagno, queste cose non possono essere cancellate nemmeno dal più convinto dei nudisti” e improvvisamente le si vede dappertutto, la bocca tesa per un mezzo sorriso.