"Allegoria del terremoto" di João Glama Strobërle (Wikimedia Commons) 

il libro

Anche sulle catastrofi i più grandi filosofi possono non essere d'accordo

Alfonso Berardinelli

Un libro indaga le diverse reazioni dei grandi illuministi Voltaire, Rousseau e Kant di fronte al terremoto di Lisbona, la catastrofe naturale che a metà Settecento mise in questione la fede, l'idea della provvidenza, il senso di ordine cosmico

Di questi tempi un libro intitolato Filosofia della catastrofe (Raffaello Cortina Editore, 214 pp., 14 euro) non è un libro come gli altri. Benché riguardi le reazioni con cui i maggiori pensatori illuministi hanno risposto a quell’immane sciagura che fu nel 1755 il terremoto di Lisbona, non può che ricordarci le varie, presenti e recenti catastrofi. Il nuovo millennio si è comportato da Millennio, spalancando la porta a una folla di dubbi a proposito della marcia trionfale con cui non avevamo smesso di accompagnare l’epica del progresso. Sembra sempre che al progresso nessuno creda, eppure nessuno smette di crederci. Il grande evento d’epoca che ci ha infine di nuovo incoraggiato a un ottimismo pressoché senza limiti, è stata la cosiddetta rivoluzione informatica, che potrebbe invece anche ispirare diverse perplessità sul futuro dell’intelligenza umana e di tutta la Noosfera o dimensione culturale, che nella nostra antropologia evolutiva accompagna la Biosfera fino a confondersi con essa.

Il libro che ho citato ha come autori nientemeno che Voltaire, Rousseau e Kant, i tre campioni dell’Illuminismo da cui siamo nati in quanto “moderni”. Il curatore del volume, Andrea Tagliapietra, introduce i testi dei tre classici con un lungo saggio molto documentato e argomentato sul tema della catastrofe negli antichi e nei moderni. Il Duemila si è già tristemente dimostrato catastrofico, con il terrorismo jihadista, le guerre (senza dimenticare le altre) in Iraq e in Siria, le grandi migrazioni, i mutamenti climatici, la crisi economica del 2008-2011 e quanto ci sta capitando da due anni fa fino a oggi. L’instabilità è dovunque e a più dimensioni, nessuna esclusa. Non sappiamo che cosa fare né se saremo capaci di fare le cose giuste, e neppure che cosa pensare, dato che pensare una catastrofe è paralizzante, è già di per sé un problema.

A metà Settecento, quattro anni dopo la pubblicazione del primo volume della gloriosa Encyclopédie di d’Alembert e Diderot, arriva l’evento che minerà l’ottimismo degli illuministi e resterà nella memoria di molti scrittori del secolo successivo, da Leopardi a Dostoevskij. Si trattò di una catastrofe naturale e proprio per questo metteva in questione la fede religiosa, l’idea di provvidenza divina, il senso o non senso dell’ordine cosmico e del posto che il genere umano occupa in esso.

La reazione di Voltaire, il più elegante, beffardo e autorevole degli illuministi, fu violenta. Il suo poemetto “Sul disastro di Lisbona” è un catalogo degli orrori e delle atroci sofferenze patite dalle vittime: “Sventurati uomini! Infelice terra! / Eterna sopportazione di inutili dolori! / Filosofi fallaci che gridate: Tutto è bene / Accorrete, contemplate queste tremende rovine, / Queste macerie, questi brandelli di carne e queste misere ceneri, / Queste donne, questi fanciulli, l’uno sull’altro ammassati, / Queste membra disperse sotto i marmi in frantumi (…) Quale crimine, quale peccato commisero questi bambini / Schiacciati e ricoperti di sangue sul seno materno / (…) Lisbona è distrutta e a Parigi si balla”.

Letto il poema, Rousseau rispose a Voltaire con una lettera sorprendente per la sua totale e polemica diversità di tono. Rousseau non accetta di farsi suggerire da Voltaire il tono tragico. La sua misantropia di uomo solo gli fa scegliere testardamente di non condividere il più naturale e ovvio degli stati d’animo. Anche di fronte alle stragi insensate del potentissimo terremoto non dimentica di essere un critico della società e osserva che se gli uomini non avessero voluto ammassarsi in grandi città piene di enormi edifici, le morti e le distruzioni sarebbero state molto minori o perfino nulle. Il lucido Voltaire urla e si dispera. Il sensibile e suscettibile Rousseau esibisce un distacco e una freddezza sconcertanti. La sua sensibilità non è scossa dalla realtà dell’evento. I suoi puntigliosi ragionamenti si sollevano subito al di sopra della morte e del dolore. Mentre il razionalista agiato e di successo Voltaire è travolto dall'emozione e protesta con Dio, il pedagogo e teorico del contratto sociale Rousseau prende le distanze dalla disperazione e teorizza la saggezza della speranza.

Il più giovane dei tre grandi illuministi, Kant, non è da meno. Si rivolge alla scienza, senza la quale la filosofia per lui è un’illusione. Si tratta, dice, di pensare alle cause dei terremoti e studiarle per prevederli. Una volta che si sia fatto questo, non c’è che ricordare i limiti del genere umano e delle sue capacità conoscitive, troppo inferiori rispetto all’audacia sconsiderata delle sue azioni e aspettative.

Tre punti di vista, ognuno con le sue ragioni. Il torto è nella facilità con cui ognuno dei tre filosofi ha trascurato le ragioni degli altri.