Yves Klein, "Le saut dans le vide"

Questione filosofica intorno al nulla

Massimo Adinolfi

Cos’è il vuoto? E quanto fa lo zero? Davvero niente? Una disputa tra i crampi linguistici di Heidegger e le boutade di Eco

Zero, vuoto, nulla: ci si può fare un libro (e un articolo) su? Non sarebbe meglio occuparsi d’altro, perlomeno di qualcosa che c’è? Quello che c’è è l’ente, e quello che non c’è è niente. Se però c’è pure, da qualche parte, un filosofo in agguato, state certi che vi farà notare che qualcosa non va, in questa prima sistemazione ontologica: se infatti quello che non c’è è niente, non si sarà prestato un essere a quel che non c’è, dicendo appunto che “è” niente?

   

Forse abbiamo solo bisticciato con le parole: ci deve essere un modo per scrivere la cosa senza cadere in una così flagrante contraddizione. E infatti il modo c’è, e a insegnarlo ci ha pensato il più rigoroso fra i filosofi, il tedesco Rudolf Carnap, campione dell’empirismo logico, emigrato negli Stati Uniti dopo l’avvento del nazismo.

   

Rischiamo di finire subito nel territorio minato della cacopedia, dove proliferano impossibilità, non sense e contraddizioni

 

Carnap, però, può aspettare. Mi fermo e ricomincio daccapo. Il libro che si occupa dello zero, del vuoto e del nulla lo hanno scritto tre accademici: un matematico, un fisico e un filosofo (e non è una barzelletta del genere: un francese, un inglese e un italiano). Il matematico – Claudio Bartocci – si occupa dello zero; il fisico – Piero Martin – del vuoto; il filosofo – Andrea Tagliapietra – del nulla (Zerologia. Sullo zero, il vuoto e il nulla, il Mulino, 194 pp., 14 euro). Il titolo lo hanno preso in prestito da un testo di Umberto Eco, apparso ne Il secondo diario minimo (Bompiani), che raccoglieva gli strambi frammenti di una “cacopedia”: l’idea di “una summa negativa del sapere”, o di una “summa del sapere negativo”, arrestatasi, spiegava umoristicamente il semiologo, perché certi rovesciamenti cacopedici del sapere si stavano realmente verificando nel bel mezzo della cultura contemporanea, senza alcuna ironia: “si pensi per esempio al corpo senza organi, all’interpretazione come fraintendimento, al neoliberismo marxista o neomarxismo liberista”. In mezzo a cotanti concetti e a cotante discipline, nell’ambizioso progetto di una “facoltà di irrilevanza comparata”, dove per laurearsi occorrerebbe dare 18 esami “in materie assolutamente sconnesse e senza rapporto reciproco”, tra una letteratura sumera contemporanea e un’urbanistica tzigana, tra una storia delle colonie del principato di Monaco e una fenomenologia dei valori cromatici nella Sindone, non farebbe la sua figura – si chiedeva Eco – anche la zerologia, “di autore incerto”, in grado di offrire un “completo calcolo logico basato solo sullo zero”?

   

In realtà, gli autori certi, vivi vegeti e insegnanti di questo libro brillante e ragionato rovesciano a loro volta le boutades di Umberto Eco, e prendono a prestito un nome cacopedico per mostrare quanto invece abbia senso occuparsi, nei rispettivi campi, di “quelle figure privative che la matematica, la fisica e la filosofia, nei loro fecondi intrecci, hanno condensato nelle idee di zero, vuoto e nulla”. Idee che presentano grandi difficoltà, sopra le quali si sono arrovellate schiere di studiosi, benché tutti ne abbiano qualche banale familiarità. Ad esempio: se ho venti ciliegie e me le mangio tutte e venti, non ne rimangono zero? Se trasloco, e libero il mio vecchio appartamento di tutta la mobilia, non rimane vuoto? E non dirò allora che nelle mie sudate stanze di una volta non c’è più nulla? Già, ma bastano queste banali esperienze per affermare che i tre cugini esistono davvero, che esiste lo zero, che esiste il vuoto, che esiste addirittura il nulla?

   

Chi sta con il nulla sta con la bella morte, il brivido metafisico. Chi sta invece contro il nulla sta con la vita moderna, il metodo scientifico 

Ecco, quando arriviamo alle deserte plaghe del nulla, rischiamo di finire subito nel territorio minato della cacopedia, dove proliferano impossibilità, non sense e contraddizioni. Per lo zero e il vuoto abbiamo infatti messo a punto specifici trattamenti; per il nulla – che non è ben chiaro cosa mai possa avere di specifico – la faccenda si presenta più complicata. Che esista lo zero, inteso come lo intendono oggi i matematici, cioè come l’insieme vuoto, siamo abbastanza disposti a concederlo, anche se l’idea che per definire i numeri dobbiamo “contare” lo zero, perché ogni numero conta tutti quelli che lo precedono, e il conto non torna se non si comincia con l’uno (che appunto conta lo zero), qualche lieve vertigine la procura. Quanto invece al vuoto, se esso significa: niente materia e niente energia, niente onde e niente particelle, beh: vi abbiamo rinunciato. Un vuoto completo, assoluto, senza che sia attraversato da campi o radiazioni, è impossibile. Gli antichi si sono presi così una bella rivincita sui moderni. Erano infatti gli antichi (con la vistosa eccezione degli atomisti, Democrito e Leucippo) a pensare che la natura aborre il vuoto, e che dunque il vuoto non può esistere; i moderni, dal canto loro. si sono progressivamente specializzati nella produzione di vuoti (relativi) sempre più spinti: dal primo barometro a mercurio di Torricelli fino agli acceleratori di particelle, passando per le lampadine e gli aspirapolvere, i tubi catodici dei vecchi televisori e i forni a microonde, il vuoto te lo ritrovi un po’ dappertutto.

    

E il nulla? Il nulla, quanto a lui, nulleggia: così ha avuto l’ardire di scrivere Martin Heidegger, con “la sua mortale serietà e la sua totale mancanza di humour” (nella descrizione che di Heidegger ci ha lasciato la moglie del neo-kantiano Ernst Cassirer). Ed è questa la proposizione che il succitato Carnap prese di mira, come una vera corbelleria. Tipica di quei musicisti senza talento – aggiungeva – che erano per le sue orecchie i filosofi. Carnap si occupò dell’heideggeriano nulleggiare del nulla in un celebre saggio, dal perentorio titolo: “Il superamento della metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio”. Faceva propria la tesi, condivisa negli ambienti neopositivistici viennesi d’inizio Novecento, e resa celebre da Wittgenstein, che i famosi problemi fondamentali della filosofia non sono in realtà altro che ostinati crampi linguistici, bruschi inciampi di parole: se si mette pazientemente ordine nel linguaggio, quei problemi, ben lungi dall’essere risolti, semplicemente si dissolvono.

   

Così, ad esempio, questo benedetto nulleggiare del nulla non solo non si capisce cosa sia, visto che il vocabolario non mette a disposizione un significato per il verbo coniato da quel mestatore di Heidegger, ma ha il difetto di presentare il nulla come una specie di cosa, una qualche entità, grazie al truffaldino impiego dell’articolo determinativo e alla posizione di soggetto nella frase. Che al nulla deve essere invece assolutamente negata. Basta dunque correggere la forma linguistica, e convertire enunciati del tipo “fuori non c’è nulla” in “non c’è qualcosa che sia fuori”, perché il mistero del nulla scompaia.

   

Un vuoto assoluto, non attraversato da campi o radiazioni, è impossibile. Gli antichi si sono presi così una bella rivincita sui moderni

Con buona pace del Führer della filosofia, per usare l’appellativo coniato dal sociologo francese Pierre Bourdieu (Führer della filosofia? L’ontologia politica di Martin Heidegger, il Mulino), per via della compromissione di Heidegger col nazismo. Proprio Bourdieu si preoccupava di definire l’insieme delle opposizioni fondamentali in cui pescava l’autore di Essere e tempo, insieme ai rivoluzionari conservatori del tempo (siamo incappati, senza volerlo, in un’altra nozione cacopedica), i quali tutti da una parte mettevano la comunità (buona), dall’altra il cosmopolitismo (cattivo); da una parte il Reich e il Führer (buoni), dall’altra il liberalismo e il parlamentarismo (cattivi); da una parte la terra, dall’altra la città; da una parte la campagna e la foresta, dall’altra la fabbrica e la città; da una parte l’organismo, dall’altra la tecnica e la macchina disumanizzante; da una parte il pensiero più profondo, dall’altra il razionalismo senza Dio.

   

Allo stesso modo, per tornare a noi, chi sta con il nulla sta con la bella morte, il brivido metafisico, la Kultur e la politica come eccedenza sovrana. Chi sta invece contro il nulla sta con la vita moderna, il metodo scientifico, la Zivilisation e la politica come tessuto democratico di norme.

In effetti: funziona. Il campo della produzione ideologica – come lo chiamava Bourdieu – è quello. E non è molto rassicurante scoprire che, purtroppo, corriamo il rischio di giocare, su quel campo, ancora un’altra partita.

  

Un rischio, però, forse politicamente meno dirompente ma non per questo meno rilevante sotto il profilo filosofico, lo corre anche il purismo logico-scientifico di Carnap, e di chiunque pensi che si possa tirare definitivamente la linea di demarcazione fra ciò che è sensato (in cui il nulla non può trovare posto) e ciò che non lo è (dove si vorrebbero confinare tutte le filosofiche elucubrazioni sul nulla). La risposta migliore a Carnap e alla sua ambizione di dare una volta per tutte “la sintassi logica del mondo” non è forse nella celebre risposta di Amleto a Orazio: “Ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne sogni la tua filosofia”? Vale per la filosofia di Orazio, ma vale appunto anche per la logica di Carnap: il mondo è più grande dell’una e dell’altra. Pensare di potergli mettere le brache – fossero pure le irreprensibili brache della logica scientifica – è una pia illusione. Così, quando Heidegger scrive con enfasi che “il niente è più originario del non”, fa inorridire i tanti filosofi analitici per i quali il Mago di Messkirch non è che un torbido incantatore, ma in fondo non dice una cosa che non meriti di essere pensata: che cioè neppure la logica, che governa l’uso della paroletta “non”, sta da sempre nella mente di Dio, o è venuta al mondo per prima.

   

Ecco delineata, brevissimamente, la parabola del nichilismo: dove Heidegger colloca il nulla, gli antichi avevano collocato invece il mondo, la natura tutta, e i medievali Dio: anche loro avevano dunque qualcosa più grande degli umani pensieri.

Molti filosofi odierni, invece, rimasti ormai senza una metafisica ma a disagio anche con le posture misticheggianti del grande pensatore tedesco, provano a metterci, più modestamente, la condizione umana. Sospesa tra l’inizio e la fine, “la lacuna da cui veniamo e quella verso cui andiamo, due vasti buchi simmetrici, incolmabili e ampi come oceani”: Tagliapietra distende così, nel suo affascinante contributo alla zerologia, la vasta e ospitale rete poetica del senso, e lascia che a parlare del nulla e del non essere siano, se non gli scienziati, almeno gli artisti e i poeti: i tragici greci e Shakespeare, la Bibbia e Leopardi.

  

Per Rudolf Carnap i famosi problemi fondamentali della filosofia non sono in realtà altro che bruschi inciampi di parole

Ma anche l’arte ha conosciuto, nel corso del ‘900, le sue rivoluzioni, e tanta voglia di farsi interpretare secondo la zuppa di linguisticismo e antropologismo oggi imperante non ce l’ha. Prendete Quadrato bianco su fondo bianco di Kazimir Malevič (1918), oppure White on white di Ellsworth Kelly (1952), prendete i tagli di Lucio Fontana o i monocromi materici di Burri: cosa mai vogliono dire? E d’altra parte: è proprio sicuro che l’arte voglia dire? Si sarebbe data tanta pena l’arte contemporanea di produrre tutte quelle tele bianche, se il suo compito fosse solo quello di dire qualcosa? E se invece fosse, tutt’al contrario, quello di liberare le cose dalla spessa coltre dei significati umani, troppo umani, che vi si depositano sopra?

   

Doveva pensarla così l’irriverente e geniale Piero Manzoni, quello degli Achrome e della squisita Merde d’artiste, che agli amici del gruppo d’avanguardia Zero (“Zero è silenzio. Zero è inizio. Zero è rotondo. Zero e Zero”) replicava secco che “Nulla è molto meglio di zero”. A lui Massimo Donà dedica il capitolo finale, “Contro niente”, del suo ultimo libro “Di un’ingannevole bellezza” (Bompiani). Il titolo cita il Manifesto contro niente per l’esposizione internazionale di niente, che Manzoni firmò nel 1960, in cui si legge fra l’altro che: “Una tela vale quasi nessuna tela. Una scultura è buona quasi quanto nessuna scultura. Una macchina è bella quasi quanto nessuna macchina. Una musica è piacevole quasi quanto nessun rumore. Nessun mercato d’arte è fruttuoso quasi quanto il mercato dell’arte… Ma soprattutto… Qualche cosa è quasi niente (nessuna cosa)”.

   

Proposizioni ai limiti della comprensibilità, che però, come spiega Donà, non volevano dire banalmente che ogni cosa è solo una povera cosa, finita, transeunte e destinata a finire nel nulla, ma proprio al contrario che non sta più in piedi, rigida e insuperabile, la grande opposizione fra l’essere e il nulla su cui si è costruita l’intera filosofia occidentale, quella che ha impegnato Platone fino al parricidio del venerando Parmenide e atterrito il grande spirito cristiano di Pascal, esaltato l’improba fatica del concetto hegeliano e gettato infine il fosco Heidegger nell’angoscia. Ma, se salta l’opposizione, salta pure la domanda metafisica fondamentale, formulata da Leibniz: perché l’essere e non piuttosto il nulla? Non c’è più nessuna preferenza tra l’uno e l’altro: non è che non vi siano ragioni per preferire l’uno all’altro, è che proprio non abbiamo più motivo di imbastire il registro della preferenza, dell’opzione o dell’alternativa fra l’uno e l’altro.

   

Così, senza più bordeggiare sui limiti del nulla, senza più la paura e il ricatto di finirci dentro a ogni passo, le cose, tutte le cose, guadagnano l’una accanto all’altra un più intenso alito di vita. Che in tempi in cui si torna ad agitare la paura come movente per serrare i ranghi, rinsaldare le comunità ed espellere gli altri, forse, a ben vedere, vale come una piccola – improbabile, e però tanto più preziosa – libertà.

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