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Contro il momento giacobino

Giulio Meotti

La crisi del liberalismo ha lasciato un vuoto riempito da un odio di sé totalitario. È una guerra alla cultura in cui il passato è un film dell’orrore da cancellare per edificare la perfetta uguaglianza. Da Finkielkraut a Mansfield, un girotondo per capire come siamo finiti in questo caos rivoluzionario

Keith Christiansen lavora da cinquant’anni al Metropolitan Museum of Art di New York, dove è arrivato a diventare il curatore dell’arte europea. Scioccato dalla devastazione e dalla rimozione di monumenti in America e in Inghilterra, Christiansen ha postato un quadro che ritrae Alexandre Lenoir mentre cerca di fermare l’iconoclastia durante la Rivoluzione francese (foto sotto), quando le statue di Notre Dame furono abbattute e la cattedrale rinominata “Tempio della Ragione”. “Alexandre Lenoir che combatte i rivoluzionari fanatici intenti a distruggere le tombe reali a Saint Denis”, ha scritto Christiansen. “Quante grandi opere d’arte sono state perse per il desiderio di liberarci di un passato che non approviamo”.

 

 

  

Numerosi membri dello staff del Met hanno inviato una lettera alla direzione per sollecitarla a riconoscere “supremazia bianca e cultura del razzismo sistemico nella nostra istituzione”. Christiansen ora è travolto dalle polemiche. Su Handelsblad, Ian Buruma, fatto fuori dalla New York Review of Books per aver pubblicato un articolo critico del #MeToo, scrive che c’è qualcosa di religioso in questa follia. “Le persone che affrontano la ‘ verità’ con un certo scetticismo, o peggio, senso dell’umorismo, sono apostati, eretici, che vanno puniti per la loro incredulità”.

 

La vicenda Christiansen salda due fenomeni distinti e paralleli nella vita pubblica: la rimozione dei simboli e la cancel culture.Rivediamo il Gesù bianco e le statue nella Cattedrale di Canterbury”. Parole arrivate non da uno dei leader di Black Lives Matter che ha proposto di abbattere le statue di Gesù, ma dell’arcivescovo Justin Welby, a capo della Church of England. Intanto, a Washington, si chiedeva di tirare giù l’Emancipation Memorial di Lincoln. In meno di un mese siamo passati dalle statue dei confederati a quella dell’uomo che li ha sconfitti e poi a rimuovere il monumento di Colombo dalla città che ne porta il nome, Columbus; e dalle statue dei mercanti di schiavi a Londra alla statua di un eroe della decolonizzazione come Hailé Selassié, fino alla cattedrale di St. Albans che ha tolto un’Ultima cena leonardesca sostituendola con un Gesù di colore. Intanto, casi come quello di Christiansen arrivavano con cadenza giornaliera. Jill Snyder, direttrice del Museo di arte contemporanea di Cleveland da 23 anni, si è dimessa e si è scusata per aver escluso la mostra di un artista che trattava le uccisioni di afroamericani e latinos. Quale curatore avrà il coraggio di far valere le considerazioni artistiche su quelle politico-ideologiche?

  

 

 

Il Wall Street Journal lo chiama “momento giacobino. La ghigliottina non è in uso, l’impulso è lo stesso a distruggere carriere. L’ondata di dimissioni, licenziamenti e scuse forzate si muove così velocemente che è difficile tenerne traccia”. Il New York Times istituzionalizzava intanto “1984” di Orwell, stabilendo che la parola “black” vuole la maiuscola, mentre per i bianchi rimarrà il minuscolo. “È in corso un movimento in cui anche l’Europa si sta americanizzando”, dice al Foglio il filosofo francese Alain Finkielkraut. “L’antirazzismo ha cambiato natura, è passato dal battersi per l’uguale dignità delle persone a essere una sorta di penitenza, l’antirazzismo si è trasformato in un razzismo antibianco e la sola maniera per il bianco di sfuggire alla condanna del proprio ‘privilegio’ è pentirsi. Questo è insopportabile”.

 

“Questa virtue signalling, sorta di indignazione adolescenziale in cui si mette in mostra la virtù, dice al passato che la lotta per raggiungere l’uguaglianza, imperfetta ma migliorata, era superflua e senza scopo” dice al Foglio Harvey Mansfield, politologo che insegna a Harvard, discepolo di Leo Strauss, studioso di Machiavelli e Tocqueville, nonché mentore di una generazione da Mark Lilla a Francis Fukuyama. “Qualsiasi cosa al di fuori della perfetta uguaglianza è malvagia quanto favorire schiavitù e segregazione. Quindi Lincoln, che ha liberato gli schiavi, è attaccato per aver detto che i neri non sono del tutto uguali ai bianchi. Ma lo disse per ottenere l’approvazione di quei bianchi che pensavano che i neri non fossero uguali ma non li volevano in schiavitù. I compromessi politici diventano un peccato come favorire la schiavitù. La logica è di dire che non abbiamo bisogno del passato; le statue possono essere abbattute per celebrare i ‘guerrieri della giustizia sociale’, esecutori di conformismo. Abbiamo dato il potere a una cultura moralistica. Il liberalismo è in un vicolo cieco in cui non ci sono più programmi di uguaglianza o di classe da proporre. Lo stato sociale è completo con il programma sanitario. Poiché il governo è sempre più pervasivo, è anche sempre meno popolare. Si passa dalla riforma politica alla trasformazione della cultura. Si cambia il modo in cui le persone pensano, e per far questo, anche il modo in cui parlano. I pronomi, ad esempio. Il femminismo è il marxismo dei nostri tempi”. E qui si arriva alla cancel culture. La Concordia University in Canada aveva invitato Mansfield a parlare. Poi l’università ha revocato l’invito. Il politologo era accusato di “promuovere la mascolinità”, in quanto autore di un famoso saggio, “Manliness”.

Mansfield conclude su una nota di scetticismo. “Una volta gli Stati Uniti hanno contribuito a salvare il mondo occidentale dal marxismo, ora abbiamo bisogno di una sana correzione dall’Europa e dai nostri amici più saggi in Italia”.

 

 

Due storici di fama, Victor Davis Hanson di Stanford e Sean Wilentz di Princeton, sono su fronti opposti sulle statue, ma concordano sulla cancel culture. “Ci si dovrebbe opporre allo smantellamento delle statue nella frenesia della folla e la decisione spetta esclusivamente ai consigli locali”, dice al Foglio Hanson, autore fra gli altri di “Massacri e cultura” (Garzanti). “Ci sono molte spiegazioni per quanto sta accadendo. L’immigrazione ha portato milioni in occidente che non hanno abbracciato l’assimilazione e l’integrazione. La pacificazione da parte dei funzionari eletti ha incoraggiato i nemici. Negli anni Sessanta, l’occidente ha raggiunto un livello di benessere e svago che ha reso più difficile inculcare il sacrificio e i valori tradizionali. Infine, lo stato ha investito nello stato terapeutico che ha dato all’‘altro’ risorse sufficienti ma non abbastanza per raggiungere la parità economica. Poi i marxisti culturali come Herbert Marcuse e Saul Alinksy hanno visto che con la traiettoria arricchente del capitalismo, la lotta di classe e la rivoluzione stavano perdendo fascino e che le leve di una società libera dovevano essere usate contro di essa. Questo fenomeno sta raggiungendo il suo massimo livello”.

 

Il professor Wilentz, che sul tema ha appena scritto un lungo saggio sul Wall Street Journal, discrimina fra le statue. “Ci sono monumenti al razzismo che dovrebbero essere rimossi”, dice al Foglio. “I monumenti costruiti a partire dal 1890 per onorare la Confederazione e il rovesciamento della ricostruzione dovrebbero essere rimossi. Poi ci sono monumenti a figure come Thomas Jefferson che, sebbene possedesse schiavi e abbia detto cose terribili, dedicò la vita ai principi di uguaglianza, illuminismo e libertà di religione. Onoriamo queste figure per il grande bene che hanno fatto. Anche Winston Churchill lo metterei in questa categoria. Certamente Woodrow Wilson. L’Avenue Wilson a Parigi è dedicato alla cooperazione internazionale, non al razzismo. Bande di anarchici, nichilisti e manifestanti non informati hanno attaccato i monumenti ad Abraham Lincoln e Ulysses S. Grant. Anche questi monumenti non furono costruiti per onorare l’oppressione”.

Per Wilentz, l’elezione di Trump ha esacerbato gli animi. “Ha alimentato la furia negli ultimi tre anni e abbastanza consapevolmente il razzismo che risale a secoli fa. Ma si noti che la grande maggioranza dei partecipanti alle dimostrazioni è bianca. Questo è straordinario e significativo. Sfortunatamente, accanto alla bellezza delle strade, c’è stata una grande bruttezza in alcune delle nostre grandi istituzioni, giornali, riviste di opinione, università e college, ma anche in tutto il mondo online. Questa bruttezza equivale a una mentalità stalinista. Una combinazione di imbroglioni e aspiranti commissari ha intimidito troppe persone al potere, ‘razzisti’ che devono essere purificati. Non letteralmente liquidati alla vecchia maniera sovietica nella prigione della Lubjanka, ma licenziati o inseriti nella lista nera, o sottoposti a svergognamento di massa, in stile maoista, su Twitter”. A proposito di cancel culture…

 

Il conservatore Victor Davis Hanson di Stanford: “Quando la lotta di classe ha perso fascino, i marxisti culturali hanno usato le leve della società libera contro di essa”. E il liberal Wilentz: “Giusta la battaglia antirazzista, stalinista invece questa intimidazione”

   

Il chimico Tomas Hudlicky, che arrivò in America dalla Cecoslovacchia comunista, è un famoso professore universitario in Canada. Ha appena scritto un saggio per Angewandte Chemie, il più importante giornale al mondo di chimica, dove ha criticato le quote riservate alle minoranze nel mondo della ricerca come “antiscientifiche” e non meritocratiche. Risultato? Articolo rimosso, scuse della rivista e un terzo dei membri del comitato internazionale (che include molti Nobel) che si sono dimessi. “L’assunzione di pratiche che suggeriscono o impongono l’uguaglianza è controproducente se si traduce in discriminazione nei confronti dei candidati più meritevoli”, aveva scritto il chimico. Le poche parole di solidarietà al professore sono arrivate dalla Repubblica Ceca. Jan Konvalinka, vice rettore dell’Università Carolina a Praga, ha detto che la famiglia di Hudlicky è “sfuggita alla Cecoslovacchia comunista e ha costruito la sua casa nel libero occidente. Sarebbe ironico e preoccupante se le stesse forze di censura e intolleranza che costrinsero Hudlicky a uscire dalla sua terra natia lo mettessero a tacere in Canada”. Intanto anche il presidente del consiglio dei governatori dell’Università della British Columbia rassegnava le dimissioni. Michael Korenberg aveva messo dei like a tweet sui manifestanti come “saccheggiatori violenti” e paragonato le proteste violente di Antifa e Black Lives Matter ai paramilitari di Hitler. È bastato un like per distruggere una persona.

 

“Si chiama terrorismo intellettuale, un processo totalitario per eccellenza, che il comunismo ha inaugurato a suo tempo”, dice al Foglio lo storico francese Thierry Wolton. Trent’anni fa, con il compianto André Glucksmann, Wolton scrisse “Silenzio, si uccide”, dedicato al tema degli aiuti occidentali ai paesi dittatoriali del Terzo mondo. Poi Wolton ha scritto una sterminata “Storia mondiale del comunismo” (Grasset), cui ha legato il nome. “L’accusa di anticomunismo è stata un’arma di esclusione e di demonizzazione, utilizzata da decenni dai comunisti con il pretesto che il mondo era diviso in due, loro e i fascisti. Questo passato continua a influenzare il dibattito quando, in assenza di argomentazioni, l’avversario è stigmatizzato sul modello terroristico comunista di un tempo: razzismo, colonialismo, sessismo sono condanne senza appello pronunciate contro chiunque non vada nella direzione desiderata e imposta dall’opinione dominante. L’insulto non è mirato alla verità, ma alla squalifica di colui a cui si rivolge, come ieri gli anticomunisti erano necessariamente fascisti. Questo terrorismo intellettuale è un’eredità del marxismo-leninismo”.

 

Non dobbiamo scusarci per ciò che siamo, prosegue Wolton. “Fare dell’uomo bianco il colpevole di tutti gli abusi del passato, che esistevano e sarebbe inutile negarlo, ricorda il processo comunista che rendeva la classe di appartenenza il fattore determinante della colpa. Vedere funzionari, come il sindaco di Minneapolis, implorare i manifestanti perché perdonino il suo ‘privilegio bianco’, è come nei momenti peggiori della rivoluzione culturale cinese quando lo studioso doveva confessare il suo amore per le vecchie lettere prima di essere giustiziato. L’autocritica è un classico comunista”.

 

Pascal Bruckner ha parlato dell’antirazzismo militante come di un tipo di comunismo. “Essere antirazzisti è una necessità, un dovere”, ci dice Wolton. “Se se ne fa un’arma per escludere coloro che non la pensano come te, l’antirazzismo è come il comunismo. ‘Chi non è con noi è contro di noi’, è stato il Leitmotiv dei marxisti-leninisti. In generale, il radicalismo in politica – indigenista, ambientalista, femminista, populista – utilizza metodi comunisti più o meno consapevoli, con la speranza che i mezzi garantiscano il successo”. L’attuale revisionismo è pericoloso. “Non è sradicando la storia, cancellando aspetti inquietanti o nascondendo eroi discutibili, tenendo solo ciò che ci piace, che possiamo raggiungere un mondo nuovo. Troncare la memoria, cancellarla, apre la porta alla manipolazione. È un metodo dittatoriale. Le nostre guardie rosse oggi sono prive di cervello, non stanno preparando niente, sono la nuova stupidità, condizione essenziale alla schiavitù. Il politicamente corretto è una nuova forma di censura, un abominio. Si finge di detenere la verità, si inserisce nella lista nera ciò che non le corrisponde. Ma solo il dibattito consente il progresso, l’ukase è sempre una regressione”.

 

Il senso di colpa ci paralizza di fronte alle dittature, che sanno sfruttare il nostro multiculturalismo dogmatico e penitenziale. “Il mondo occidentale è debole rispetto alla Cina comunista. Xi Jinping l’ha compreso per far avanzare i suoi pedoni. La cultura occidentale ama la pace e, per preservarla, è pronta a chiudere un occhio su ciò che la minaccia. La politica dello struzzo ci è già costata cara”. Wolton torna alla censura. “Ogni opinione va espressa, anche la più inquietante. La censura non ha mai risolto nulla. Chiudi la porta alle idee e rientreranno dalla finestra ancora più forti, circondate dall’aura del proibito. Tutta la censura è impoverimento. Chi è in grado oggi di citare un’opera letteraria, un pittore, un filosofo, uno storico dell’Unione sovietica, che sia stato trasmesso ai posteri a parte i dissidenti, coloro che stavano combattendo contro la censura statale? La ricchezza intellettuale è propria solo delle società aperte”. 

  

È preoccupato Josef Olmert, professore all’American University di Washington, già docente all’Università ebraica di Gerusalemme nonché fratello dell’ex premier israeliano. “Ci sono in occidente movimenti socio-politici che non possono accettare i valori fondamentali della democrazia liberale”, dice Olmert al Foglio. “Non c’è differenza tra forme rosse e marroni e nere di totalitarismo. Il nazismo, ovviamente, ci ricorda il 10 maggio 1933: lo spettacolo del pubblico che brucia i libri a Berlino. Questa tendenza dà molto peso a simboli che sottolineano l’eredità storica. Detesto qualsiasi forma di estremismo e ho paura di questa rivoluzione culturale. Ciò che alimenta ulteriormente questo fenomeno è la profonda sfiducia nell’establishment politico. Trump ne ha beneficiato nel 2016, ma potrebbe esserne la vittima nel 2020. La sinistra totalitaria progressista manda a processo qualunque cosa consideri una nemesi ideologica. È pericoloso, perché tra le cose porterà a un forte contraccolpo. Ricorda il ‘68 negli Stati Uniti e in Francia. Come qualsiasi altro gruppo di fanatici, credono che la storia sia dalla loro parte. Come ebreo sono estremamente preoccupato, ma oggi gli ebrei hanno un’alternativa: il ritorno a Sion. Sono tempi bui, demoliscono statue, bruciano libri e poi uccidono le persone. La storia non si ripete necessariamente, ma io vedo come se fossero gli anni 30 e non sono proprio così vecchio”.

 

Secondo Rod Dreher, saggista autore dell’“Opzione Benedetto” e che a settembre pubblica “Live not by lies”, si tratta di uno “spasmo di iconoclastia” e di una “crisi di civiltà”. “L’odio per il cristianesimo e per la civiltà occidentale, che si è manifestato per la prima volta in modo così potente nel 1968, è di nuovo fra noi” dice Dreher al Foglio. “Nel 1966, il critico culturale americano Philip Rieff affermò che la rivoluzione che stava battendo in occidente era più potente della rivoluzione dell’ottobre 1917. Fu una rivoluzione che consolidò la visione del mondo che chiamava ‘terapeutica’. Disse che l’uomo occidentale non pensava più alla verità, ma a ciò che lo faceva stare bene. Abbiamo sviluppato un morboso senso di colpa, senza avere alcun modo per alleviarlo. Oggi questi rivoluzionari stanno cercando di liberarsi del senso di colpa – esagerato – sacrificando il loro Dio e i loro padri e creando un Anno Zero”.

  

Thierry Wolton: “Il radicalismo in politica – indigenista, ambientalista, femminista, populista – utilizza metodi comunisti, più o meno consapevoli. L’attuale revisionismo è pericoloso. Le nostre guardie rosse oggi sono prive di cervello, sono la nuova stupidità, condizione essenziale alla schiavitù” 

 

È un fenomeno religioso, dice Dreher. “Tutte le religioni hanno tabù. La cancel culture deriva dalla secolarizzazione del tabù religioso. È anche una caratteristica delle società totalitarie, in cui tutto ciò che è contrario all’ideologia dominante deve essere condannato e rimosso dalla vista. Oggi, questa mentalità religiosa ha preso il controllo della politica terapeutica della sinistra, secondo la quale qualsiasi cosa offenda una vittima sacra - persone Lgbt, di colore e così via - deve essere condannata e la persona che l’ha scritta o detta messa a tacere per sempre. Se la cancel culture fosse attuata dalla chiesa, i liberal potrebbero vederla per quello che è: fanatismo religioso. Ma viene portato avanti nel nome della sinistra e per amore delle sacre vittime, quindi i liberal sono paralizzati. Anche i conservatori rimangono in silenzio, perché hanno il terrore di perdere il lavoro”.

L’obiettivo è una utopia. “Ciò che i commissari politicamente corretti vogliono è eliminare il peccato. Non è possibile, ma distruggeranno molte vite prima che la loro passione si esaurisca”. Dreher non riesce a vederne la fine. “Negli anni ‘90, questo genere di cose attraversò le università americane, ma alla fine scomparve. Era troppo sciocco per essere preso sul serio fuori dalle università. I tempi sono cambiati. Oggi sembra che l’intero paese sia un campus universitario. I guerrieri della cultura hanno marciato efficacemente attraverso le istituzioni e non esiste un modo puramente politico per fermarli”. Hanno anche conquistato il Big Business. “Il fenomeno del ‘capitalismo woke’ è nuovo. Karl Marx capì correttamente che il capitalismo era un fenomeno rivoluzionario. Negli Stati Uniti, tuttavia, i conservatori hanno vissuto a lungo nell’illusione che il business fosse una forza per il conservatorismo. Ma nell’ultimo decennio, le grandi società hanno usato il loro immenso potere per forzare il cambiamento culturale, a sinistra”.

 

Il suo prossimo libro, “Live Not By Lies”, sarà pubblicato il 29 settembre. “È un’analisi dei modi in cui stiamo scivolando in un ‘totalitarismo morbido’ in occidente negli Stati Uniti e in Europa” ci spiega Dreher. “Per anni, le persone emigrate in America dal blocco sovietico hanno avvertito anche in occidente i segni che avevano lasciato alle spalle. Nessuno li ha presi sul serio. La lettura di Hannah Arendt è scioccante. Molte delle condizioni preliminari per il totalitarismo - la solitudine di massa, la frammentazione e l’assenza di radici - sono oggi fra noi. Non avremo gulag, ma qualcosa di simile al sistema di credito sociale cinese”. Dedica il libro a padre Tomislav Kolakovic. “Avvertì gli studenti che dopo la guerra i comunisti avrebbero preso il paese a Breslavia. Li ha preparati avviando piccoli gruppi per la preghiera, lo studio e l’azione. È quello che è successo nel 1948, in un putsch sostenuto dai sovietici. Tutti i capi dei gruppi di Kolakovic andarono in prigione. Furono la principale resistenza anticomunista per due generazioni. Lo sconvolgimento culturale che stiamo vedendo ora è un segno drammatico dei tempi. Dovremmo organizzarci come ha fatto padre Kolakovic negli anni 40, prima che sia troppo tardi”.

 

 

La cancel culture è arrivata anche in Francia. È stata appena deturpata a Parigi la statua di Jean-Baptiste Colbert, il ministro delle Finanze di Luigi XIV. Sul piedistallo, la scritta: “Negrofobia di stato”. Poi quelle del generale De Gaulle. Alla Sorbona si censurano le Supplici di Eschilo perché in odore di razzismo (a causa dell’uso delle maschere di colore). “È l’ideologia della lavagna pulita”, dice al Foglio lo storico e saggista Maxime Tandonnet, braccio destro di Nicolas Sarkozy all’Eliseo. “Consiste nel voler distruggere l’immagine di personalità simboliche, Colbert, Bonaparte, Churchill, de Gaulle... È tipico del pensiero totalitario: distruggere radici e tradizioni, generare un ‘uomo nuovo’. È una società che celebra il pentimento e il culto delle minoranze. Il modello francese di cittadinanza che non riconosce distinzione di origine è abbandonato. Il sistema comunitario ora prevale in occidente: il saccheggio di statue delle storie nazionali segna il parossismo di questo modello”. Sul Figaro, Tandonnet ha appena parlato di nichilismo. “Stiamo sperimentando il collasso dell’insegnamento di storia, letteratura, filosofia e scienza” ci spiega. E c’è un impulso anticristiano dietro questo movimento. “Il cristianesimo era il cemento delle società europee fino agli anni ‘60, ma da allora una scristianizzazione accelerata ha colpito il vecchio continente. Esprimendo il suo odio per la storia dell’Europa e del mondo occidentale, questo movimento è destinato ad attaccare il cristianesimo”. Tandonnet non vede controtendenze e contrappesi. “Per il momento, nessuna inversione. La maggior parte degli intellettuali e dei politici esercita grande discrezione, paralizzata dalla paura di apparire reazionaria”.

 

È in Inghilterra che questo movimento ha attecchito maggiormente in Europa. “Da qualche tempo la guerra culturale contro la civiltà è stata motivata dall’impulso di scollegare il presente dal passato” ci dice il sociologo inglese Frank Furedi, originario dell’Ungheria e oggi professore emerito all’Università del Kent. “La guerra alla cultura è una guerra al passato, i simboli, l’arte, la letteratura... Il passato è contaminato e va criticato e sradicato. Le élite culturali sono state molto codarde dagli anni ‘70. Non credono nei valori in cui sono state educate e hanno fatto pochi sforzi per sostenere e difendere i valori giudaico- cristiani, la filosofia greca, il Rinascimento e l’Illuminismo. I loro avversari non dovevano fare molto poiché incontravano poca resistenza”. La cancel culture è crescita nel vuoto. “Mentre i valori liberali classici diminuivano. L’ideale di tolleranza ha perso peso morale, così la libertà di parola è respinta come secondaria. La situazione peggiorerà. La civiltà europea ha perso o sta per perdere una generazione di giovani idealisti. Sfortunatamente, i conservatori, i veri liberali, gli umanisti e le persone di fede non hanno affrontato la questione cruciale di ‘chi sta socializzando i nostri figli’. Chi gestisce le nostre istituzioni culturali non ha lealtà verso la cultura occidentale, è più che felice di incoraggiare la decadenza culturale”.

 

Brendan O’Neill, direttore del magazine libertario Spiked, da anni segue tutto il fronte della cancel culture. “È un momento profondamente irrazionale” dice O’Neill al Foglio. “Possiamo vedere cosa succede quando educhi un’intera generazione a essere ossessionata dall’identità, dal razzismo, dall’impero e disgustata dalla propria stessa storia. Abbiamo detto loro che hanno il diritto di vivere in uno ‘spazio sicuro’ e li abbiamo completamente alienati. Ora le mafie neo-maoiste cercano di ripulire lo spazio pubblico da monumenti ‘offensivi’ nella convinzione narcisistica di avere il diritto di distruggere qualsiasi cosa che li sconvolga intellettualmente o moralmente. Sono gli eserciti del nuovo establishment, non ribelli controculturali”. Le società occidentali hanno perso fiducia in se stesse, continua O’Neill. “C’è un potente di disgusto di se stessi nell’educazione, cultura, media e politica. La storia occidentale è vista come un crimine dietro l’altro. Gli intellettuali occidentali amano ossessionarsi con storie malvagie, come schiavitù e colonialismo, perché aumentano il senso di uno scopo morale: ‘Siamo migliori dei nostri antenati malvagi’”.

 

 

Questo può essere visto negli Stati Uniti. “La folla che ha demolito una statua di George Washington a Portland l’ha prima deturpata con lo slogan ‘1619’. È il riferimento alla campagna del New York Times per cambiare la data di fondazione della Repubblica americana dal 1776 al 1619, dalla rivoluzione americana all’arrivo degli schiavi, per riflettere anti-americanismo e nichilismo anti-occidentale. L’America è ridefinita come fondata sulla schiavitù e sul razzismo piuttosto che su rivoluzioni, guerre per l’indipendenza, l’abolizionismo, i diritti civili, la libertà di parola, il capitalismo e il progresso. Tutte le cose meravigliose dell’occidente vengono cancellate e ci viene chiesto di vedere il passato come uno spettacolo dell’orrore”. O’Neill rintraccia molte radici della cancel culture. “Ha un elemento di stalinismo. E c’è il politicamente corretto degli anni ‘80, la convinzione che si dovrebbe avere diritto di parola in base alla razza. Quindi, se sei nero, puoi parlare di problemi sociali. Se sei bianco, zitto, ‘resta nella tua corsia’, ‘passa il microfono’. Si tratta di cambiare il modo in cui le persone pensano in modo che i loro pensieri siano più in linea con quelli delle nuove élite. Considera la sorveglianza del linguaggio sul gender. Chiunque metta in discussione la ‘genderfluidity’ viene immediatamente cancellato e denunciato come transfobico”. È il caso J.K. Rowling, solo per citare l’ultimo, la scrittrice inglese linciata per aver detto che maschio e femmina sono dati biologici reali. “Si sorvegliano i parametri del pensiero accettabile in un assalto alle fondamenta della vita familiare comunitaria, di maschio e femmina, padre e madre” prosegue al Foglio O’Neill. “La cancellazione è una minaccia per chiunque si rifiuti di conformarsi alle nuove ideologie. Nel medio termine, peggiorerà. Le élite ‘woke’ sono dominanti nella vita pubblica, culturale e dei media. Abbiamo bisogno di una rivolta democratica contro il nichilismo”.

 

Rod Dreher: “Già nel 1966 Philip Rieff disse che la rivoluzione che batteva
in occidente era più pericolosa di quella di ottobre del 1917”. Maxime Tandonnet: “La maggior parte degli intellettuali e dei politici esercita grande discrezione, è paralizzata dalla paura di apparire reazionaria”

  

“Siamo tutti indignati per la morte di George Floyd” dice al Foglio il sociologo canadese Mathieu Bock-Côté, autore del libro “L’empire du politiquement correct” (edizioni Le Cerf). “Ma come capire che nel giro di un mese siamo passati dal denunciare la violenza della polizia negli Stati Uniti al voler abbattere statue ovunque in occidente e a cancellare, dove possibile, la semplice traccia della parola ‘bianco’? Siamo di fronte a un’impennata rivoluzionaria. Da decenni si sta sviluppando un’ideologia fondamentalmente anti-occidentale che spinge la nostra civiltà verso il pentimento, persino la sottomissione, come vediamo oggi con l’obbligo di inginocchiarsi davanti ai dogmi di un multiculturalismo radicalizzato. Il movimento indigenista ritiene che la decolonizzazione iniziata alcuni decenni fa avrà realmente successo solo quando i paesi occidentali si saranno completamente denazionalizzati e i vari popoli a cui sono storicamente legati saranno stranieri nei loro stessi paesi e considerati lì solo come una popolazione tra le altre, e più precisamente, come una maggioranza bianca chiamata a spogliarsi dei suoi ‘privilegi’ per realizzare una società veramente inclusiva basata sul principio dell’antirazzismo. Il movimento indigenista ha spirito di conquista e intende impadronirsi dello spazio pubblico, appropriarsene, decidendo quali rappresentazioni del passato sono permesse e quali vietate. Di fronte alla forza, una parte della nostra élite è sdraiata. L’obiettivo è sradicare i simboli della civiltà occidentale reinterpretando la sua storia alla luce del colonialismo, del razzismo e della schiavitù”.

 

Lo vediamo in particolare con Cristoforo Colombo negli Stati Uniti. “Un tempo era celebrato perché rappresentava lo spirito delle grandi scoperte legate all’espansione europea a partire dal XV secolo. Ora è la figura inaugurale di una modernità sterminatrice. Allo stesso modo, Churchill fu celebrato per aver tenuto testa al nazismo, incarnava la resistenza al Terzo Reich e la vittoria su Hitler. Ma questo non basta più, a quanto pare. Piuttosto, dovrebbe essere demolito perché ha condiviso alcuni dei pregiudizi del suo tempo”. La complessità storica viene abolita. “Ci troviamo di fronte a un’operazione di pulizia simbolica: l’occidente deve ora vedere se stesso attraverso gli occhi di chi lo maledice. È manicheo: il senso di colpa occidentale è ontologico, definitivo e irreversibile. Al contrario, coloro che si ribellano contro l’occidente, chiunque essi siano, sono spinti dalla virtù della diversità e dal senso della storia. Questo è ciò che ha portato a celebrare il velo islamico, il niqab, un segno di affermazione identitaria per le minoranze che rifiutano di sottomettersi attraverso di esso ai codici assimilativi e tirannici delle maggioranze. Il niqab è diventato un vettore di emancipazione contro una società chiusa in se stessa e focalizzata sull’esclusione e sull’islamofobia”.

 

C’è stata una corruzione della coscienza storica. “Le società occidentali sono state oggetto di intensi condizionamenti ideologici, lavorando per criminalizzare le rappresentazioni simboliche dell’identità collettiva”. Stiamo subendo gli effetti della decomposizione simbolica della nazione”. Il ritorno dell’identità razziale ne è la testimonianza. “Una volta che la nazione è demograficamente sopraffatta, il processo di etnicizzazione delle relazioni sociali, per quanto riprovevole, è inevitabile. Una cosa è certa: è stata sistematicamente incoraggiata dall’ideologia multiculturalista, che inverte il dovere dell’integrazione e favorisce l’esacerbazione dell’identità originaria delle popolazioni immigrate, scoraggiandone l’integrazione”. Veniamo all’impero. “Il politicamente corretto è un dispositivo inibitorio la cui funzione è quella di demonizzare qualsiasi messa in discussione delle dinamiche ideologiche. Oggi assicura la persecuzione accademica, mediatica e legale di coloro che si oppongono e si rifiutano di aderire ai dogmi che installa nel cuore dello spazio pubblico. Il politicamente corretto è il sistema di repressione ideologica e, d’ora in poi, legale, che semplicemente non tollera più di essere contraddetto e che intende spazzare via dalla scena pubblica pensieri che ritiene ostili”.

 

Mathieu Bock-Côté: “Bisogna sottomettersi con zelo alle varie ingiunzioni delle minoranze, altrimenti si rischia la squalifica professionale e la morte sociale. Forse un giorno i teppisti antirazzisti aggrediranno anche fisicamente i nemici della loro visione. Chi vorrà opporsi in questo contesto?”  

È l’intera civiltà che viene respinta. “L’uomo bianco diventa l’incarnazione del male” ci spiega Bock-Côté. “L’amore per l’umanità dovrebbe culminare nell’odio per il grande uomo bianco eterosessuale cattivo. Chi mostri la minima riserva sarà accusato di cadere nella ‘fragilità bianca’, concetto uscito dal mondo accademico e che oggi trova ampia eco nell’impresa privata. Il numero dei consulenti sulla diversità è in aumento: sono specialisti della rieducazione ideologica, il cui scopo è quello di far sentire i ‘bianchi’ colpevoli di un sistema patriarcale oppressivo, eterosessista, cisgender, razzista, omofobico e transfobico che va decostruito. In questa logica, il più zelante nel denunciare il proprio ‘biancore’ si posizionerà vantaggiosamente nel nuovo regime diversificato, che non nasconde più la tentazione totalitaria. O si pensa nel modo giusto, o ci si trasforma in complici del vecchio regime razzista e quindi condannati a gemere”.

Bock-Côté dice che la degenerazione culturale andrà avanti. “Non credo si fermerà affatto. Forse la folla arrabbiata si prenderà una pausa quest’estate. Ma il paradigma decoloniale e razziale è ben radicato nell’università e normalizzato nei media, riconfigurando l’immaginario collettivo. Il prezzo da pagare per resistere a questo movimento è immenso. Lo abbiamo visto in Canada, dove un commentatore politico è stato costretto a dimettersi per essersi rifiutato di abbracciare la teoria del ‘razzismo sistemico’. Si è impegnato in un’autocritica maoista. Bisogna sottomettersi con zelo alle varie ingiunzioni delle minoranze, altrimenti si rischia la squalifica professionale e la morte sociale. Potrebbe arrivare un giorno in cui i teppisti antirazzisti si permetteranno anche di attaccare fisicamente i nemici, come abbiamo visto in Francia qualche settimana fa con l’attacco per strada a Éric Zemmour. Chi, in questo contesto, vorrà opporsi all’avanguardia della rivoluzione della diversità e alle sue truppe d’assalto?”.

   

Dopo essere stato cacciato dalla Polonia comunista, il filosofo Leszek Kolakowski arrivò prima a Berkeley e poi a Yale. Erano gli anni delle proteste sessantottine, uno “spettacolo pietoso” dirà Kolakowski. Il motivo “era quella barbarie mentale, quella volontà ostinata di distruggere il sapere, l’università; di abolire tutti i criteri intellettuali, tutto ciò che richiede uno sforzo; di sostituire al pensiero un urlo inarticolato e la violenza. Era il movimento degli enfants gâtés delle classi medie”, i bambini viziati del benessere, e “che esprimeva una vera malattia culturale: la rottura nella trasmissione dei valori sociali”. Kolakowski fu tra i pochi a capire che non era soltanto una “infantilizzazione della società”, ma un autentico movimento che scavava solchi profondi in occidente. “L’anti-intellettualismo più aggressivo troverà l’entusiastico sostegno di un certo numero di intellettuali cresciuti nella civiltà borghese occidentale, i cui valori essi scartano ostentatamente per umiliarsi di fronte allo splendore di una inequivocabile barbarie”. E inginocchiarsi.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.