Mikhail Khodorkovski (foto Wikimedia Commons)

Tra avidità e libertà. Vita e ombre di “Citizen K”, Mikhail Khodorkovski

Marina Valensise

Da Eltsin a Putin. Il documentario di Alex Gibney in mostra

Venezia. Mikhail Khodorkovski ha una sagoma squadrata, spalle larghe, portamento sicuro… lo guardi e pensi a un armadio blindato. Ha grandi occhi scuri e uno sguardo intenso, ma sorride pochissimo seduto accanto all’americano Alex Gibney, già premio Oscar, e autore di “Citizen K”, l’applauditissimo documentario su di lui. Uno dei sette oligarchi che ai tempi di Boris Eltsin fecero razzia dei gioielli dell’industria di stato sovietica, il miliardario che sognava una Russia post comunista liberale e aperta al mondo, il nemico numero uno di Vladimir Putin, con cui cercò invano di trattare alla pari, arriva al Lido circondato da un impressionante dispositivo di sicurezza. Parla senza incertezze, dice anche cose banali, ma con straordinaria gravità. “Per me la libertà è poter parlare e incontrare chi voglio, dire quello che penso. Ma la Russia di oggi non è solo uno stato autoritario, ma uno stato in mano alla mafia e ai politici corrotti, dove appena ti avvicini al Cremlino rischi grosso, com’è successo a Salvini…”. Parla così l’uomo che oggi con la sua fondazione Open Russia si mobilita per libertà e la democrazia contro la repressione, si batte per il rilascio del dissidente ucraino Oleg Sentsov, in carcere da quando ha denunciato l’ingerenza russa nel colpo di stato a Kiev. Khodorkovski è stato graziato nel 2013 da Putin dopo dieci anni di carcere duro in Siberia in seguito a una condanna per frode fiscale, prima, e poi per furto di materie prime. Oggi vive Londra, seduto su una fortuna di 400 milioni di dollari, ma non può mettere piede in Russia perché grava ancora su di lui un mandato di arresto internazionale per il presunto ruolo che ebbe nell’omicidio di Vladimir Petukhov, il sindaco di Nefteyugansk, la città dei grandi giacimenti di petrolio nella Siberia occidentale, ucciso nel 1998, che iniziò lo sciopero della fame perché Iukos pagasse le imposte locali.

 

Gibney racconta tutto questo come un thriller. Racconta l’infanzia del genietto figlio di due ingegneri chimici sovietici, padre ebreo, madre ortodossa, che sin da piccolo si divertiva a costruire razzi e sognava di provocare esplosioni. Racconta senza compiacenza la straordinaria carriera del chimico uscito dall’istituto Mendeleiev che in pochi anni, attivista modello del Komsomol, mette in piedi un’ingente fortuna, fonda una banca, la Menetep, che diventerà la holding del gruppo Iukos, di cui conquista nel 1995 il 33 per cento. “Lei è un uomo avido?”, domanda l’americano con presbiteriano candore. “Sì molto avido”, risponde il russo con un faro beffardo negli occhi, ricordando la sorpresa alla scoperta che “tante persone invece di tenersi le banconote, le cedono in cambio di tanti prodotti scadenti”. La molla verso l’accumulazione primaria in questo figlio dell’Urss è tutta qui. Ma i passi che in pochi lustri lo portarono a una fortuna stimata 27 miliardi di dollari, con un plusvalore del 75 per cento, restano incomprensibili senza le liberalizzazioni volute da Eltsin all’inizio degli anni ’90, senza il genio vorace degli oligarchi che conquistarono il lucroso mercato delle materie prime, impadronendosi dei vecchi conglomerati sovietici in liquidazione, per trasformarli in aziende appetibili dalle multinazionali americane. Gibney racconta tutto questo, facendo parlare Khodorkovski, in un antro di cemento senza luce, e registrandone 20 ore di intervista. Ma ricompone il puzzle con filmati mai visti (come l’arresto di K all’aeroporto di Novisibirsk nel 2003, il suo castello alle porte di Mosca, Putin che piange il crollo dell’Urss, ospite in diretta a una specie di Domenica In) e altre testimonianze come quella dell’avvocato di K, che illustra l’agghiacciante procedura del sistema processuale post sovietico, del biografo di K, ex corrispondente della Bbc, di una giornalista per niente carezzevole, e di altri esperti ancora in vita. Plana infatti su questo documentario il fantasma dei morti, e il silenzio dei perseguitati, delle vittime dell’avidità e prima ancora della repressione, esplosa quando Putin arriva al potere e impone agli oligarchi di scegliere tra politica e affari. Ma per riscoprire i metodi sovietici del terrore e della repressione, bisogna vedere l’altro documentario russo della Mostra del Cinema, dedicato dal figlio di Andrej Tarkovski a suo padre, il grande regista dissidente morto a Firenze dopo esser stato perseguitato e per anni e ricattato nei suoi affetti più cari.