Il cast di "Marriage story" alla 76esima mostra d'arte cinematografica di Venezia (foto LaPresse)

Grazie Netflix per il buon cinema che (si può) vedere

Mariarosa Mancuso

La piattaforma streaming, la nuova “lettera scarlatta” fischiata dalle prof democratiche, fa i migliori film di Venezia. E ci salva

Quando le professoresse democratiche e Libération sono d’accordo nel deplorare qualcosa, conviene mettersi in salvo. Prima ancora di sapere quale sassolino vogliono levarsi dalla scarpa. Quando il loro comune nemico è Netflix, sappiamo di aver fatto la cosa giusta. Dovevano sentirsi così i primi ascoltatori di dischi in vinile, comodi nelle loro case senza dover raggiungere la sala da concerto. Di fronte ai (più che benestanti) passatisti che sostenevano: “Dal vivo la musica è un’altra cosa”. “L’erreur historique de la Mostra” è il titolo dell’articolo firmato su Libération da François Aymé, presidente dell’Associazione francese dei cinema “d’arte e d’essai”. Furioso perché Alberto Barbera ha messo in concorso titoli prodotti dal gigante dello streaming (neanche più monopolista, la concorrenza si sta facendo agguerrita): “Marriage Story” di Noah Baumbach e “The Laundromat” di Steven Soderbergh. Il cinema va goduto in sala, sostiene il bastian contrario. Magari, perché no?, recandosi in sala con una comoda carrozza a cavalli, anche i vetturini devono campare. Il mondo visto dalle professoresse democratiche è altrettanto strano. Celebrano la lettura e le librerie, poi si divertono con gli sciocchezzai che sfottono i lettori deboli. Sostengono di amare il cinema, ma quando qualcuno investe soldi, e pure tanti, nel medesimo – regista messicano, bianco e nero, parlato in mixteco, una serva come protagonista, perfino i giurati degli Oscar erano lì pronti con la statuetta – trovano la faccenda disdicevole. E i film prodotti da Netflix brutti a prescindere.

 

Si dà il caso invece che i film con la N rossa – fischiata quando appare sullo schermo come i cinefili duri e puri del Festival di Locarno fischiavano la banca sponsor Ubs – siano tra i più belli visti finora alla Mostra di Venezia. “Marriage Story” è la storia di un divorzio – mancano i divorzi in Italia? no, mancano gli sceneggiatori – che ha fatto piangere e ha fatto ridere. Uscirà nelle sale americane in esclusiva per un mese, prima di sbarcare su Netflix il 6 dicembre (che soddisfazione poter consigliare titoli che escono a distanza ravvicinata dal festival, invece di raccontare film che nessuno vedrà mai). “The Laundromat” – la lavanderia automatica – è il film sui Panama Papers. (Mancuso segue a pagina due)

 

Non proprio il titolo che più ci ingolosiva. Pensavamo a un pedante documentario, come l’inguardabile “Adults in the Room” di Costa-Gavras, ovvero: come l’Europa insegnò a Yanis Varoufakis che l’albero degli zecchini non esiste (Pinocchio già l’aveva imparato). Sbagliato. E’ una divertentissima commedia con Meryl Streep, vedova in cerca di risarcimento – un’onda anomala ha rovesciato la barca dove con il marito faceva la gita da pensionata. Vestita da casalinga middle class, cerca giustizia. Intanto due simpatici signori in smoking – Gary Oldman e Antonio Banderas, strepitosi – illustrano i segreti della finanza, capitolo “società di comodo offshore”. Chiacchierando amabilmente, con lo champagne in mano, come se fossero il denaro personificato. Il 18 ottobre sarà su Netflix, segnatevi la data (preceduto negli Usa da 3 settimane in sala, che altro volete?) C’era un terzo titolo Netflix, “The King” dell’australiano David Michôd. Gli animi sono apparsi meno ostili, era fuori concorso. A logica, avrebbero dovuto esserlo di più, perché è un film brutto. Timothée Chalamet – l’efebico fanciullo di “Chiamami con il tuo nome” – ha addosso l’armatura da Enrico V alla battaglia di Azincourt, anno 1415. Ed è solo l’inizio del disastro.

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