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Via dalla pazza folla, protagonista assoluta di film e documentari al Lido

Marianna Rizzini

Sullo schermo a Venezia, tra gli accessi di rabbia che ricorda la furia collettiva dei Robin Hood dal volto di clown che inneggiano al drop-out Joker

Roma. La piazza virtuale grillina deve decidere oggi se dire sì o no, sulla piattaforma Rousseau, al governo M5s-Pd – e un virtuale pollice verso nell’arena potrebbe scaraventare nel caos la più grande piazza reale a Cinque stelle – ma non è certo l’unico caso, oggi, in cui una folla di persone (folla materiale, folla immateriale) viene considerata alla stregua di un dio a cui sacrificare la ragione e anche tutte le ragioni. E il tema (dalla Brexit in giù) è talmente presente, per non dire onnipresente, che alla Mostra del Cinema di Venezia la folla – da blandire, da nutrire, da accontentare, da contenere, fisicamente o mediaticamente – si fa coprotagonista di film e documentari. Una folla con maschere da pagliaccio, evoluzione e degenerazione delle masse degli indignados d’antan (modello Anonymous) fa da coro macabro alla discesa nel personale maelström di Joker-Joaquin Phoenix nel film di Todd Phillips, anche se, in quella Gotham City percorsa da ratti e moderne rivolte per il pane nessuno grida “Occupy Wall Street”, ma senza una parola tutti mettono in scena la caccia al ricco e al potente, caccia che ogni giorno, seppure a livello virtuale, qualsiasi social rovescia sulle nostre scrivanie (e guardando il film viene da domandarsi se l’ispirazione l’ha fornita prima il web o prima la realtà, da quanto la rapida rabbia internettiana ricorda la furia collettiva dei Robin Hood dal volto di clown che inneggiano al drop-out Joker, sfortunato figlio rivoluzionario del disagio, come potesse essere il re taumaturgo che tutto risolve mentre le lacrime di sangue rigano il suo volto). E sempre una folla invisibile, muta, ma sempre presente, presidia in modo sottile i ragionamenti e le azioni degli uomini che hanno fatto del caso Dreyfus un caso simbolo: nelle stanze buie in cui si muovono generali, spioni e gentiluomini nel film “J’accuse” di Roman Polanski, la paura della sollevazione popolare contro un esercito che condanna gli innocenti e salva i colpevoli per salvare se stesso diventa il fantasma attorno a cui tutto si muove, e a cui guarda lo stesso Dreyfus, che dall’esilio, dentro una fortezza, solo in mezzo al mare, sogna il giorno in cui una folla leggerà il titolo cubitale del suo riscatto e della sua riabilitazione. E quella folla che sullo schermo brucia giornali nei vicoli di Parigi, e inneggia ciecamente a chi copre con noncuranza il pasticcio giudiziario in nome della patria e del “dàgli allo sporco ebreo” nei giorni più difficili della Terza Repubblica francese, riporta in qualche modo – fatte le debite proporzioni di spazio, tempo, tragicità e importanza – al meccanismo di cieca soddisfazione automatica della rabbia un tanto al chilo che anima la folla ondivaga e non proprio pensante che si presta tutti i giorni a fare da claque alla gogna su Facebook contro questo o contro quello.

 

Poi c’è la realtà dell’Oriente di oggi, dove la folla descritta nel documentario “The Kingmaker” di Lauren Greenfeld, in un inesorabile crescendo elettorale, riporta al potere nelle Filippine, con il proprio volto o sotto mentite spoglie, la stessa famiglia Marcos che cinquant’anni fa aveva regnato con piglio dittatoriale nelle medesime isole – non a caso Imelda Marcos, a lungo intervistata, la coccola con le parole, la folla (“the people”) a cui sempre pensava quando, a suo dire, si comportava da “madre” (e pazienza se non sono tuttora di questo avviso i non dimentichi abitanti del villaggio filippino allontanati allora dalle loro case per far spazio a una sorta di parco-safari popolato di giraffe importate letteralmente dal’Africa). E una folla ancora informe, mezza reale mezza virtuale, compare e scompare dalle parole di Mikhail Khodorkovsky in “Citizen K”, documentario di Alex Gibney sulla storia-parabola dell’ex oligarca poi dissidente russo: la folla che il “cittadino K” spera di svegliare “presto”, sapendo che “presto”, per chi è stato in una prigione siberiana dieci anni, può anche non voler dire domani. E anche quando la folla in teoria non c’è, come in “Laundromat” di Steven Soderbergh, alla folla approssimativa dei nemici mediatici della finanza tout court si rivolgono i due gemelli diversi (e compagni di truffa) protagonisti del film, interpretati meravigliosamente da Gary Oldman e Antonio Banderas, quando dicono: “Volevate per caso tornare al baratto?”.

Marianna Rizzini

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.