Roman Polanski, Emmanuelle Seigner, Mathieu Amalric (Foto LaPresse)

A Venezia Polanski è da Leone d'oro e chissà se Lucrecia Martel se ne accorgerà

Mariarosa Mancuso

Sceneggiatura di ferro e cast eccezionale in “J’accuse”, la storia del caso Dreyfus

Servizi segreti, nella Francia di fine Ottocento. Chi apre la corrispondenza dei sospettati trafficando a secco, e chi la apre in umido, con il vapore. Le cameriere consegnano il contenuto dei cestini della carta, un addetto mette insieme i pezzi strappati. I fondi non registrati nel bilancio stanno in una borsa da medico di campagna. Lo spionaggio ravvicinato – come nel film “Le vite degli altri”, l’altro ieri in Germania dell’est – prevede l’affitto di un appartamento contiguo, una camera oscura per sviluppare le fotografie, un marchingegno che applicato al parquet amplifica rumori e conversazioni.

 

“Ufficio di statistica”, lo chiamavano. Servì per accusare di tradimento il capitano Alfred Dreyfus, pubblicamente degradato (con gioia dei militari antisemiti) e deportato all’Isola del Diavolo. Il colonnello Georges Picquart aveva sugli ebrei parecchi pregiudizi, ma sarà lui a far riaprire il caso. Nominato capo del controspionaggio, scoprì che le prove erano state falsificate malamente (con la fattiva collaborazione delle gerarchie militari). Lo racconta Roman Polanski, classe 1933, nel suo film in concorso a Venezia: “J’accuse”, come l’articolo di Émile Zola che fece scandalo.

 

Sceneggiatura di ferro, tratta dal romanzo di Robert Harris “L’ufficiale e la spia” (Mondadori). Attori bravissimi, c’è mezzo cinema francese, in un casting impeccabile. Punto di vista che lascia ai margini Alfred Dreyfus e le sue sofferenze (c’era il rischio di un melodrammatico santino) per concentrarsi sulle forme della macchinazione. Che hanno i loro corsi e ricorsi – allora la stampa era giovane, e lavorava bene – e ci ricordano che il regista è nato a Parigi da genitori ebrei polacchi: tornarono a Cracovia nel 1936, spaventati dall’antisemitismo dei francesi. Da Leone d’oro, e così capiremo se la presidente della giuria Lucrecia Martel ama il cinema – qualche dubbio già l’abbiamo avuto, vedendo i suoi film – o se preferisce l’ideologia.

 

Cimici e foto scattate di nascosto anche in “Seberg” di Benedict Andrews, alla Mostra fuori concorso. Kristen Stewart – con un guardaroba da sballo – è Jean Seberg, attrice celebre per “Fino all’ultimo respiro”, anno 1960: uno dei rari film guardabili tra quelli diretti da Jean-Luc Godard. I suoi capelli cortissimi lanciarono una moda, la ragazzina dell’Iowa divenne l’icona della Nouvelle Vague (prima era stata Giovanna d’Arco nel film di Otto Preminger, rischiando di bruciare davvero sul rogo). Nel 1968, tornata negli Stati Uniti, si fece fotografare con il pugno chiuso accanto a Hakim Jamal, un cugino di Malcolm X che poi divenne il suo amante. Peggio non si poteva, per farsi stritolare tra l’Fbi e le Pantere Nere, contrarissimi alle coppie bicolori. Qui il santino melodrammatico è cercato con ostinazione, e viene punito con lo sbadiglio.