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Il Mose serve e va sperimentato, con buona pace dei soliti catastrofisti

Umberto Minopoli

Agli italiani piace di più adagiarsi nel catastrofismo che prospettare soluzioni

Troppo ghiotta la marea a Venezia per non incolpare i cambiamenti climatici lo scioglimento dei ghiacciai e l’innalzamento del livello dei mari. Davvero una lotta ai mulini a vento richiamare i fattori naturali e periodici (subsidenza oceanica, venti e fenomeni meteo, variazioni stagionali, maree ecc.) che, tra il 1990 e il 2017, fanno registrare una “leggera” accelerazione della crescita del livello del mare. A cui la temperatura globale media del pianeta concorre ma non determina da sola. Appare davvero uno sforzo titanico, nel delirio della disinformazione dilagante, richiamare le cause vere che, da sempre, motivano le inondazioni ricorrenti di Venezia: le maree, il moto di oscillazione del livello delle acque marine, influenzato dal fattore astronomico (l’attrazione della Luna e del Sole che ciclicamente e regolarmente fanno alzare e abbassare il livello delle acque marine) e da quello meteorologico (le periodiche forti piogge e il vento di scirocco proveniente dal basso Adriatico).

 

 

Venezia è inoltre caratterizzata dal forte fenomeno della subsidenza, un abbassamento plurisecolare del livello del suolo, dovuto a molteplici cause naturali e antropiche. Il livello dei mari sarebbe perciò da ritenere al massimo una possibile concausa. Si sostiene che, tra il 1872 e il 2016, il livello del mare a Venezia sia cresciuto di quasi 35 centimetri, a un ritmo di 2,5 millimetri all’anno. Ma solo una parte di tale innalzamento, secondo gli esperti, è riconducibile al volume d’acqua in aumento causato dallo scioglimento dei ghiacciai della massa artica. Se pure non ci fosse o si bloccasse del tutto il fenomeno artico, attribuito al cambio climatico, le inondazioni a Venezia non smetterebbero affatto e resterebbero in tutta la loro periodicità e pericolosità. In ogni caso, il picco della oscillazione dei mari (1 metro) è previsto a Venezia, dai modelli dell’Ipcc, per il 2100. E sarebbe il più basso tra le città costiere considerate nel mondo. Un ovvio principio di precauzione porterebbe a fronteggiare la minaccia puntando alle opere di contrasto e di adattamento. Senza adagiarsi, invece, nel catastrofismo. E, tantomeno nell’illusione, sciocca e impotente, da cui siamo bombardati in queste ore, che l’acqua a Venezia si ferma azzerando le emissioni serra. Così, effettivamente, la salvezza di Venezia si farebbe impossibile. E, invece, c’è tutto il tempo di adattare la tecnologia a fermare l’acqua alta a Venezia. La cosa è assolutamente alla portata. Purché si operi e non si favoleggi sull’apocalisse. Le mareggiate di Venezia non sono uno tsunami. Il massimo fenomeno catastrofico per Venezia è considerato quello di una mareggiata di 140 centimetri (molto rara) che allagherebbe il 60 per cento della città. Questo evento è fronteggiabile con sistemi mobili di chiuse e paratie. Da quarant’anni si polemizza sul Mose, ma non si è a conoscenza di alternative concrete a esso. E comunque, un’opera al 95 per cento è doveroso completarla e sperimentarla. In Olanda, Inghilterra, in Russia e negli Stati Uniti sbarrare il passo all’acqua alta si è dimostrato possibile ed efficace.

 

  

A Rotterdam una diga di sbarramento anti mareggiata, lunga 9 chilometri e formata da 65 piloni e 62 paratie alte dai 6 ai 12 metri, esiste da 30 anni e ha eliminato il pericolo delle mareggiate. Ovviamente, nella città olandese la diga è stata realizzata in tempi “umani”, dieci anni, con la spinta di politici, ambientalisti e imprese. A Venezia il Mose va a rilento e sommerso dalle polemiche, dalle risse politiche, dal pessimismo ambientalista, dai dubbi e dalle contestazioni di maniera. Agli italiani piace di più adagiarsi nel catastrofismo che prospettare soluzioni.

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