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La falla nel Mose è “l'irresponsabilità collettiva”, ci dice Piergiorgio Baita

Giorgio Barbieri

Parla l’ultimo depositario dei segreti della diga veneziana

Roma. “Cinque anni di gestione straordinaria del Mose hanno distrutto la filiera delle responsabilità. Qualsiasi cosa succeda, un tubo rotto o una paratoia che non si alza, e nessuno sa più con chi può prendersela”. Dopo la morte di Giovanni Mazzacurati, scomparso poche settimane fa a 87 anni nel suo buen retiro a San Diego, in California, Piergiorgio Baita è rimasto l’ultimo vero depositario dei segreti della grande diga veneziana. Per quindici anni amministratore delegato della Mantovani, il colosso che acquistò da Impregilo la quota di maggioranza del Consorzio Venezia Nuova, il suo nome è comparso in tutti i grandi affari: Mose, passante di Mestre, ospedali, autostrade fino alla conquista dell’appalto più ricco dell’Expo di Milano. C’era quando il Mose venne ideato negli anni Ottanta e con le sue parole, prima quando venne arrestato nel 1992 e poi nuovamente nel 2013, stroncò le carriere di molti esponenti politici, da Gianni De Michelis a Giancarlo Galan.

  

Della grande opera veneziana conosce probabilmente ogni tubo e ingranaggio ed è quindi probabilmente l’unico in grado di rispondere alle due domande che oggi tutti si pongono di fronte alle immagini dell’acqua alta in piazza San Marco: il Mose può essere terminato? E una volta terminato, funzionerà? “Sì, ma va immediatamente sgomberato il campo da una sciocchezza che si legge in questi giorni e che non ha senso, ossia che manca il 5 per cento dell’opera. Il Mose è come un iPhone senza la scheda sim. Se manca quella, anche se è niente rispetto al resto, manca tutto. La stessa cosa vale per le dighe, a cui attualmente manca il cervello per farle funzionare e, al momento, nessuna delle imprese coinvolte è in grado di costruirlo”. Senza guardare troppo al passato (per le sue vicende ha patteggiato una pena di due anni) Baita è però convinto che non tutto sia perduto nonostante i cinque anni persi, a suo dire, soprattutto per colpa dell’amministrazione straordinaria imposta dalla prefettura di Roma nel 2014. “Intendiamoci, il commissariamento voluto dall’Anac in quel momento era doveroso, visto quanto era emerso dalle inchieste della magistratura. I problemi sono venuti dopo, quando gli amministratori straordinari hanno allargato il perimetro del loro intervento, che doveva essere di pura amministrazione, trasformandosi in decisori tecnici e interferendo nell’esecuzione dei lavori. In questo modo hanno fatto il gioco delle imprese che si sono sentite libere e deresponsabilizzate. Ed è questa irresponsabilità collettiva il tema che nessuno vuole affrontare parlando del Mose”.

 

La conseguenza è stata quella di lasciare l’opera abbandonata a se stessa nel fondo della laguna, tanto da non poter neanche essere autorizzato nei giorni scorsi un semplice test con condizioni meteo favorevoli. La strada per portare a termine il Mose per Baita è comunque una sola. “Chiudere al più presto il Consorzio Venezia Nuova perché si sta dimostrando incapace di finire l’opera. D’altronde come potrebbe esserlo: il 90 per cento delle imprese che lo componevano ormai non è più in bonis. Sono rimaste solamente quelle piccole che non sono certo in grado di andare avanti da sole. Il governo deve avere il coraggio di voltare definitivamente pagina e fare una bella gara internazionale per il completamento e l’avviamento dell’opera e scegliere le imprese con il miglior progetto e una dimensione finanziaria proporzionata alla enorme responsabilità di dover salvare Venezia dalle acque alte eccezionali. Quanto costerà? Non si può dire adesso, come non è quantificabile il valore di Venezia”.

  

Ora in laguna sta per arrivare Elisabetta Spitz, nominata dal governo commissaria per il Mose. “Si tratta di un primo passo”, aggiunge Baita, “perché avrà i poteri per velocizzare alcuni passaggi. Ma non si andrà da nessuna parte se si continuerà con la formula del vecchio concessionario unico”.

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