Il plastico del progetto del nuovo stadio della Roma (foto LaPresse)

Corruzione all'ultimo stadio

Carlo Stagnaro

Norme inefficaci e imperfezioni burocratiche: le mazzette si evitano mettendo mano alle regole

Tutti hanno un prezzo. L’indagine per presunta corruzione attorno al nuovo stadio della Roma, che ha condotto a nove arresti anche tra esponenti di primo piano del mondo a cinque stelle, ha lo stesso effetto della tangente Enimont alla Lega nel 1993: rompe l’illusione della verginità. Dirà la magistratura se le persone indagate sono effettivamente colpevoli. In ogni caso, torna alla ribalta quel “mondo di mezzo” che tutti avevano potuto vedere con Mafia Capitale (sebbene poi le accuse più gravi, come quella di associazione a delinquere di stampo mafioso, siano state respinte dal giudice di primo grado). La sensazione è che, pur essendo cambiato tutto, nulla sia cambiato. In parte è così, e il motivo è semplice: sostituire le persone – come ha fatto Luigi Di Maio allontanando il presidente di Acea, Luca Lanzalone – è necessario, non sufficiente. Non restituisce la purezza perduta né rappresenta una risposta strutturale al malcostume.

 

Queste vicende, infatti, suggeriscono che la corruzione sia ancora un fenomeno diffuso, da cui non sono immuni neppure quanti hanno fatto della fedina penale il proprio programma politico. D’altra parte, aiutano ad affrontare il tema in modo corretto. Cioè cercando di astrarre dai singoli casi (e dunque sforzandosi di trovare delle regolarità osservabili) anziché costruire una narrazione aneddotica. La corruzione non è solo un problema di persone: non basta deporre i corrotti dai troni e innalzare gli onesti. E’ soprattutto un problema di regole e incentivi.

 

Paradosso: più le procedure sono confuse, più la corruzione si staglia come risposta razionale alle incertezze sugli esiti e i tempi

Anzitutto, bisogna interrogarsi sulle conseguenze della corruzione: siamo sicuri che essa sia sempre e solo negativa? I suoi effetti sono tali da giustificare tutta l’attenzione e gli sforzi che dedichiamo a contrastarla? Gli economisti si sono a lungo posti questo problema, sviluppando due teorie alternative. Secondo l’una, nota come “grease in the wheels”, la corruzione può oliare le ruote della crescita quando serve a sbloccare una macchina burocratica che, altrimenti, sarebbe un ostacolo allo sviluppo. Nel caso di corruzione più famoso della storia del cinema, Oskar Schindler paga mazzette ai nazisti per salvare le vite di oltre mille operai ebrei: alzi la mano chi, oggi, ne chiederebbe la condanna. Altri studiosi, invece, sottolineano che la corruzione agisce come “sand in the wheels”, sabbia negli ingranaggi, in quanto determina una allocazione inefficiente delle risorse e consente di catturare o mantenere rendite. Quando diventano endemici, i comportamenti corruttivi (e la semplice percezione della loro presenza) minano la certezza del diritto, impongono costi aggiuntivi agli investitori e ai consumatori (oltre che ai contribuenti, nel caso di appalti pubblici), distorcono il mercato e la concorrenza, sovente sono di ostacolo nell’accesso al credito e più in generale al buon funzionamento delle imprese. Empiricamente, vi è ormai un vasto consenso sul fatto che la corruzione rappresenti perlopiù un freno, oltre che ovviamente una pratica odiosa rispetto ai principi di imparzialità e terzietà dell’amministrazione.

 

La domanda successiva è perché la corruzione esiste. Un fenomeno non può essere efficacemente combattuto se non se ne capiscono le ragioni: nessuna malattia può essere sconfitta se ci si concentra unicamente sui sintomi. Sono tre le cause predisponenti: la burocratizzazone della vita economica, la discrezionalità dei pubblici ufficiali (politici o funzionari) e la farraginosità e opacità delle procedure. E’ molto facile interpretare cosa abbia in testa chi accetta una stecca: approfittare del proprio potere per accantonare un reddito aggiuntivo. E’ semplice anche intuire le motivazioni dei corruttori: conquistare o mantenere un’utilità indebita, per esempio mettendo le mani su una commessa pubblica, spiazzando i concorrenti attraverso un accesso privilegiato alle istituzioni, escludere i rivali tramite regole che ne impediscano l’ingresso o comunque la crescita sul mercato. Entrambi conoscono la severità delle pene (peraltro inasprite con gli ultimi interventi in materia). Entrambi sanno che il rischio di essere acciuffati, pur essendo maggiore che in passato, rimane relativamente basso. Ma, soprattutto, entrambi sono consapevoli che è la natura stessa del sistema Italia a rendere la tentazione quasi irresistibile.

 

Nel nostro paese, il potere statale è vasto e cresce continuamente: se dobbiamo dar retta ai propositi di ripubblicizzazione e ri-regolamentazione contenuti nel programma di Governo, l’amicizia dei decisori pubblici sarà nei prossimi anni un asset ancora più prezioso. Il requisito fondamentale per poter erogare favori è, appunto, trovarsi al centro degli snodi decisionali. Ma essere nel posto giusto non basta: la seconda condizione è quella di avere la facoltà di influenzarne i risultati, anticipando una pratica rispetto a un’altra, alterando i criteri di valutazione, scrivendo in modo opportunistico un disciplinare di gara, o addirittura truccando le carte. Occorre, insomma, godere di un sufficiente livello di arbitrarietà o influenza. Da ultimo, bisogna essere confidenti sul fatto che sarà possibile nascondere le condotte illecite: e questo è tanto più probabile quanto più i processi decisionali sono oscuri e complicati.

 

La propensione a corrompere (o a essere corrotti) dipende insomma dal rapporto tra l’utilità attesa e il costo atteso di tale comportamento, che a sua volta riflette la probabilità di essere smascherati e la durezza della condanna che in tal caso si sarà chiamati a scontare. La reazione “di pancia” a qualunque episodio di malcostume consiste nell’invocare pene più dure: ma, se ci si limita a questo, si finirà per sortire lo stesso effetto delle grida manzoniane. Piuttosto, bisogna concentrarsi sugli altri termini dell’equazione: da un lato ridurre il payoff delle condotte illecite, dall’altro aumentare il rischio di essere scoperti. Su entrambi i fronti, si è sviluppata una fiorente letteratura, che ha individuato numerose best practice, relative sia all’organizzazione generale dello stato e delle sue attività, sia alle pratiche anticorruzione.

 

Per quanto riguarda i potenziali benefici delle condotte illecite, è quasi un truismo dire che il modo più semplice per eliminarli è potare le ramificazioni dello stato. Per questo, gli studiosi di economia della corruzione tendono a enfatizzare l’importanza delle politiche di privatizzazione e liberalizzazione: sottraendo ai funzionari pubblici (eletti o di carriera) il potere di indirizzare il mercato, essi avranno anche meno occasioni di cadere in tentazione. In un certo senso, la corruzione è la forma più pura di politica industriale. Anche la spesa pubblica può essere un veicolo di corruzione, specie quando la sua allocazione dipende da valutazioni qualitative: due economisti della Banca d’Italia, Guglielmo Barone e Gaia Narciso, hanno trovato che i comuni caratterizzati da una maggiore presenza mafiosa sono anche destinatari di più cospicui trasferimenti pubblici. Il potere, inoltre, tende a consolidarsi nel tempo, man mano che i funzionari si sentono inattaccabili e insostituibili. La permanenza delle stesse persone nelle stesse posizioni, specie apicali, favorisce quasi naturalmente il formarsi di familiarità e consorterie. Il presidente dell’Anac, Raffaele Cantone, che in questi giorni ha presentato il suo rapporto annuale, ha giustamente rivendicato la rotazione degli incarichi come un obbligo tanto cruciale quanto inattuato. Sarà interessante vedere se il nuovo esecutivo, anche sulla scorta dei fatti di Roma, darà seguito alla sua implicita esortazione.

 

Sostituire le persone – come ha fatto Di Maio allontanando Lanzalone – non è sufficiente. Non restituisce la purezza perduta

La complessità dei meccanismi decisionali fornisce ulteriore humus al fenomeno corruttivo. Lo si capisce bene da un aspetto evidenziato giovedì scorso da Claudio Cerasa: “tutto sarebbe stato fatto per elaborare ‘una soluzione tecnica’ per il progetto dello stadio della Roma ‘finalizzata a consentire un immediato inizio dei lavori senza il ricorso a procedure d’urgenza’, in modo da evitare ricorsi ‘con conseguente allungamento dei tempi’ e per far sì che fosse individuato ‘un escamotage nell’interesse esclusivo del privato per eliminare gli ostacoli frapposti alla realizzazione del progetto’”. Paradossalmente, più le procedure sono confuse, più la corruzione si staglia come risposta razionale alle incertezze sugli esiti e i tempi dei progetti. Il tentativo di sfuggire al labirinto della burocrazia attraverso sistemi derogatori, come ha sottolineato Sabino Cassese commentando Mafia Capitale e come si è verificato anche nei casi Expo e Mose, è uno dei principali moventi dei delinquenti. Ma in queste circostanze, ferme restando le responsabilità individuali, è difficile negare anche una sorta di responsabilità di sistema: nella misura in cui i comportamenti criminali si configurano come un tentativo di aggirare le incognite procedurali, la linearizzazione dei processi è la strategia, al tempo stesso, più efficace e più giusta.

 

Nella stessa direzione va la politica della trasparenza. Essa non riguarda solo gli emolumenti di politici e dirigenti pubblici (una misura che sovente sconfina nel voyeurismo): riguarda soprattutto l’iter delle procedure, le modalità di determinazione dei risultati e la possibilità di giudicarne gli esiti. Per esempio, i costi standard sono uno strumento importantissimo in quanto consentono di cogliere quasi a vista d’occhio gli scostamenti sospetti, promuovendo l’accountability: quest’ultima, si legge nel rapporto dell’Anac, “è collegata all’eccesso di discrezionalità di cui può godere il funzionario pubblico preposto all’azione amministrativa, soprattutto quando questo viene valutato non in base ai risultati concreti raggiunti dal suo operato, ma sul rispetto di astratte regole procedurali”.

 

Per quanto si possa fare per contenere la dimensione fisiologica del fenomeno corruttivo, è ovvio che ne residuerà una parte patologica. E’ qui che entrano in campo le misure di contrasto. La proposta più discussa, in questo momento, è quella dell’agente provocatore: una toppa che rischia di essere peggio del buco. Come spiegano Francesco Giavazzi e Giorgio Barbieri ne “I signori del tempo perso”, il principale strumento attraverso cui la burocrazia ostacolo lo sviluppo è la dilazione delle decisioni, spesso legata al timore di assumersi responsabilità. Il rischio, allora, è che l’agente provocatore finisca per intimidire ulteriormente i funzionari perbene, spingendoli a essere ancora più cauti prima di firmare un atto, e parallelamente stimoli gli individui più spregiudicati a cercare con maggiore insistenza delle vie di fuga “informali”. L’agente provocatore “è considerato a larga maggioranza tecnicamente non percorribile nell’ordinamento italiano – spiega l’avvocato Alessandro Musella dello studio Bonelli Erede – La misura ritenuta percorribile e appropriata è invece quella dell’impiego di agenti sotto copertura, attuabile mediante estensione ai reati di corruzione delle norme che consentono l’impiego di tale tipo di agenti per i reati di criminalità organizzata”. Analogamente, andrebbe rivista la disciplina del whistleblower, non solo rafforzando i presidi a tutela della riservatezza del segnalante, ma soprattutto introducendo adeguati meccanismi di premialità per le denunce che si rivelano utili, e di sanzione per quelle manifestamente infondate. A oggi, infatti, l’istituto sembra fornire agli uffici molti pettegolezzi sui colleghi e poche informazioni utili a colpire il malaffare. Infine, sul versante delle sanzioni, anziché invocare pene esemplari quanto inverosimili, occorre concentrarsi su quelle di natura economica. Il rischio di subire un forte danno patrimoniale è sovente un deterrente efficace, che ha funzionato – per esempio – nei casi di mafia. A differenza di questi ultimi, però, la corruzione non ha caratteristiche tali da giustificare il sequestro o la confisca preventivi dei beni: questo strumento, introdotto sul finire della scorsa legislatura, si espone anzi al rischio di abusi intollerabili.

 

Il malcostume nella pubblica amministrazione non è una condanna divina ma neppure un accidente di percorso: è la conseguenza della nostra imperfezione e di regole inefficaci. Raddrizzare il legno storto dell’umanità è un compito forse troppo vasto, e dunque porre ogni aspettativa sulla sostituzione dei “vecchi” coi “nuovi” rischia di lasciare inevitabilmente l’amaro in bocca. Mettere mano alle regole, rimuovendo gli incentivi impliciti alla corruzione e utilizzando strumenti di contrasto efficaci e moderni, è invece alla nostra portata. In un provocatorio articolo del 1995, il premio Nobel per l’economia Gary Becker scriveva: “ogni regolamentazione, legge e programma pubblico, che sia un appalto pubblico o un sussidio all’export, può essere manipolato a favore di qualche interesse particolare… [la corruzione] rimarrà terribilmente diffusa finché i governi continueranno ad avere tutto questo potere sulle fortune delle imprese”. E’ utopistico pensare che il peso dello stato possa ridursi nei prossimi anni: sarebbe già qualcosa se non crescesse.