Cristina Grancio (foto LaPresse)

“Con Lanzalone passammo dalla democrazia diretta a quella sospesa”, dice Grancio (ex M5s)

Valerio Valentini

"Una follia. Ma come, stiamo per dare il via libera alla più grande opera pubblica a Roma dai tempi di Italia 90, e non ci interessiamo dell’affidabilità del principale costruttore?"

Roma. L’ha letto, sì. O meglio, gli è stato riferito. “Mi hanno chiamata in parecchi, per leggermi quel passaggio”. Iubes renovare dolorem, ogni volta. Ma Cristina Grancio non si scompone, anzi: la ex consigliera grillina dell’aula Giulio Cesare, ormai definitivamente approdata – dopo una tarantella di sospensioni e riammissioni da e nel M5s – al Gruppo Misto, ostenta quasi una vaga indifferenza, mentre dice che più che sdegno ha provato “sorpresa”, nell’apprendere di come Luca Lanzalone parlasse di lei. “Con noi era sempre tutto elegante e raffinato. E in quell’intercettazione, invece...”.

 

In quell’intercettazione, che nella fattispecie è quella registrata il primo giugno del 2017, il salvifico consulente imposto dai vertici del M5s a Virginia Raggi cercava di tranquillizzare l’altro Luca, Parnasi, sull’ostilità della consigliera ribelle, quella risolutamente contraria alla costruzione dello stadio della Roma: “Adesso parlo io con Luca. Già gliel’ho detto l’altro giorno: non bisogna andare dietro alle istanze della Grancio, perché ti porta a spasso, la Grancio e le sue cazzate”. Bonjour finesse, ma si sa che tra amici questo ed altro, quindi “figurarsi se il problema è il lessico”, sorride la Grancio. “No, qui il problema è la democrazia: doveva essere diretta, e invece a me pare sospesa, o scomparsa”. Del resto il Luca di cui parla Lanzalone, il terzo che entra in gioco in questa chiacchierata un po’ sbracata, è Montuori: ovvero l’assessore all’Urbanistica. “Sì, in effetti Montuori fa un po’ la figura della marionetta: io del resto – racconta la Grancio – glielo dissi anche pubblicamente, che andava dietro alle richieste di Parnasi. Lui non rispose”.

 

Lui, in verità, a suo modo ha risposto al Corriere, ieri, ammettendo candidamente che sì, a Lanzalone inviava atti e chiedeva consigli, chiedendosi in fondo che male mai ci fosse, nel farlo. “Di male – insorge la Grancio – c’era che non si capiva chi facesse cosa, e a che titolo. Io percepii sin dall’inizio quanto la situazione fosse torbida, e in chat chiesi una cosa semplice: ‘Ma Lanzalone, chi lo paga?’. Risposte: nessuna. L’idea che lo facesse a gratis a me appariva inquietante: nessuno fa niente per niente. E infatti poi, con la presidenza di Acea, la sua ricompensa la ebbe eccome”.

 

E magari avrebbe puntato anche a qualcosa di più, l’ambizioso avvocato che così bene aveva saputo accreditarsi presso i grandi capi della Casaleggio: Cdp, magari, e poi chissà. “A noi venne presentato – ricorda la Grancio – come uno che ci avrebbe aiutato nella questione dello stadio. C’erano immancabilmente, insieme a lui, Riccardo Fraccaro e Alfonso Bonafede: sempre rispettosi, sempre ossequiosi nei confronti di Lanzalone. E insomma già alla seconda riunione che lui fece con noi consiglieri mi allarmai, perché all’improvviso l’avvocatura del Campidoglio non era più presente. Lui, di fatto, l’aveva esautorata e sostituita”.

 

Il primo attrito non tardò ad arrivare: “A metà febbraio del 2017, pochi giorni dopo il suo arrivo, io ebbi con Lanzalone uno scambio di mail, in cui insistevo sulla possibilità di annullare la delibera 132 del 2014, quella con cui la giunta di Ignazio Marino avviava il progetto per l’impianto di Tor di Valle. Avemmo uno scambio di opinioni, e subito alcuni miei colleghi si indisposero: Pietro Calabrese addirittura si sentì in dovere di scrivere lui, a Lanzalone, per chiedere scusa della mia insistenza”. E fu così che si arrivò allo scontro frontale, quello che poi spinse Parnasi ad allarmarsi. “Chiedevo soltanto di audire il curatore fallimentare della Sais, l’azienda da cui la Eurnova di Parnasi aveva comprato i terreni di Tor di Valle. Gaetano Papalia, il titolare della Sais, denunciava d tempo le inadempienze di Parnasi, e io, su consiglio di Ferdinando Imposimato, volevo vederci chiaro. Mi fu detto che quelle erano questioni che riguardavano una azienda privata. Una follia. Ma come, mi dicevo, stiamo per dare il via libera alla più grande opera pubblica a Roma dai tempi di Italia 90, e non ci interessiamo dell’affidabilità del principale costruttore? Il giorno della votazione decisiva in commissione, il 9 giugno, ci venne fornita un’autocertificazione da parte di Eurnova, che attestava il buono stato delle sue casse. Inaccettabile. Mi alzai senza votare. Due ore dopo mi venne notificata la mia sospensione”. Seguì una riammissione e poi, lo scorso aprile, l’espulsione definitiva. “Ragionano come una setta: per cui ormai vengo trattata come un’appestata”. E la Raggi? “Dovrebbe dimettersi per palese incapacità”. Poteva non sapere. “Difficile crederlo. Ma anche se fosse...”. E se fosse? “Sarebbe quantomeno grave che su un’opera importante come quella dello stadio della Roma la sindaca della Capitale permette che tutto si muova alle sue spalle, senza accorgersi di nulla”.

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