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Roma e il dramma di una città dove la burocrazia immobilizza chi vuole investire e produrre

Marianna Rizzini

L’inchiesta e non solo. “A Roma le procedure urbanistiche possono durare anche 18 anni”. Cosa insegna la storia dello stadio? Parla il capo dei costruttori romani

Roma. Lo stadio, l’inchiesta, gli intermediari, la politica e i co-protagonisti dell’eterno canovaccio sul rapporto tra PA e affari: i costruttori, guardati spesso con sospetto nel loro insieme, al di là delle indagini in questo o quel nome. E infatti, al di là delle indagini su Luca Parnasi, il caso “stadio della Roma” solleva problemi ricorrenti e irrisolti che hanno a che fare con l’amministrazione della cosa pubblica: il peso (a volte intralcio) della burocrazia, la regolamentazione delle lobby, il confine tra lecito e illecito nel finanziamento a fondazioni para-politiche e nel presunto “traffico di influenze”. Come se ne esce? E come pensano di uscirne i costruttori che operano nella Roma che non conosce tregua mediatica, uscita da Mafia Capitale e precipitata nel pasticciaccio dello stadio? Il presidente di Acer (costruttori romani) Nicolò Rebecchini si dice “amareggiato per una situazione che vede coinvolta l’intera città: mi auguro che si faccia chiarezza rispetto a modi opachi di procedere, ma che il progetto dello stadio resti perseguibile come grande opera che può essere di impulso per lo sviluppo e gli investimenti anche internazionali in città. Inoltre, additare l’intera categoria semplicemente con l’espressione di ‘palazzinari’ nuoce non solo a chi lavorando legittimamente la subisce, ma scredita anche coloro i quali impropriamente continuano a utilizzarla”. E però, dice Rebecchini, “non mi pare si stia andando alla radice del problema. Senza voler coprire alcuna responsabilità, il vero punto da affrontare è quello di una burocrazia che avvinghia e immobilizza chi vuole investire e produrre: ma all’interno di una situazione di elefantiasi si muovono i più veloci, e la palude favorisce eventuali scaltrezze da un lato e inefficienze dall’altro”. Ma che cosa si intende, quando si parla di burocrazia che immobilizza? “Le mille leggi e regole anche confliggenti, gli indirizzi che la Pa dà a partire dal livello statale giù giù fino a quello comunale, dove manca una vera e propria certezza. Se i tempi nell’ambito delle procedure urbanistiche fossero sufficientemente certi e contenuti probabilmente quello che leggiamo non sarebbe così comune. L’erba cattiva cresce dove nessuno si preoccupa di risolvere a monte”. Oggi si guarda all’Autorità nazionale anticorruzione come alla panacea: “Si fa riferimento all’Anac come metodo migliorativo di un sistema. Ma se l’Autorità può aggiungere molto ex post, non risolve il problema all’origine. Anche se ci aspettiamo che il nuovo codice degli appalti venga portato a compimento quanto prima, varando i regolamenti ancora non definiti”.

 

Tornando alla stasi, dice Rebecchini, “a Roma le procedure urbanistiche possono durare anche 13, 17, 18 anni. Per un progetto approvato nel piano regolatore, insomma, il tempo necessario a mettere la prima pietra, nel passaggio tra i vari uffici locali, può protrarsi oltre il decennio. E questo confligge sia con l’interesse pubblico sia con quello privato. In così tanti anni muta l’interesse della città, mutano l’ambiente e le esigenze pubbliche. Conosco tanti operatori che hanno presentato progetti di importanza pari a quella dello stadio e che da quindici anni non hanno visto la luce di un nulla osta urbanistico. In questa situazione, può prosperare chi pensa di aggirare gli ostacoli in altro modo”. Difficile risalire alle responsabilità originarie: “Non basta dire che tutto il passato è marcio, anche se in molti casi è vero. La politica dovrebbe mettere operatori e investitori in grado di agire in un quadro certo”. C’è poi tutta una narrazione a tinte fosche dell’attività lobbistica. “Per evitare che una intera classe imprenditoriale venga demonizzata per l’operato distorsivo di pochi”, dice Rebecchini, “le lobby dovrebbero essere finalmente regolamentate come accade in molti altri paesi. Una lobby fa l’interesse di tutta la categoria, non del singolo: se la politica vuole prendere in considerazione le cose che propone, bene, sennò può benissimo penalizzare il settore, non investendo su quel genere di prodotto”. A questo punto, però, si mette in mezzo tutta la storia recente dei rapporti politica-imprenditoria, da Tangentopoli in giù: “Bisogna fare chiarezza anche in questo campo. Nel dibattito sul finanziamento alle fondazioni, da un lato, e sul traffico di influenze, dall’altro, c’è qualcosa di contraddittorio. E le regole non possono essere fatte sull’onda dell’emotività, si rischia di ammazzare un intero sistema. La politica non deve avere paura di fornire alla PA gli strumenti per gestire i processi imprenditoriali in modo più snello e sicuro. E la PA dev’essere efficiente, snella sicura garantita dalla politica, un’amministrazione con la A maiuscola. Vale per tutto il paese, anche se Roma purtroppo è un caso a parte, a partire dal problema di cassa. Ci auguriamo che l’attuale governo guardi con lucidità alla capitale. Dopodiché non si può additare tout court come untore chi cerca di portare acqua al suo mulino imprenditoriale, a patto che lo faccia nel rispetto delle regole”.

  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.