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Da Hong Kong a Hollywood

Il mito di Bruce Lee, il drago che fece da ponte fra oriente e occidente

Francesco Palmieri

Non solo attore, ma maestro di vita. La sua massima "Be Water" ha ispirato le sfortunate proteste contro il regime di Pechino. E "Be Water, My Friend" si intitola la raccolta dei suoi insegnamenti curata dalla figlia Shannon, il mese prossimo nelle librerie in Italia. Storia del gladiatore che ci ha lasciati troppo presto

Quando il Drago arrivò a Roma, nella primavera di cinquant’anni fa, nessuno se ne accorse. Nemmeno il personale dell’Hotel Flora di via Veneto, che ospitò quei cinque giovani asiatici, fece caso più di tanto a uno di loro, il “cinesino” miope, magro, il più giocoso di questa minimale troupe cinematografica o forse turistica venuta da Hong Kong. Sicché il Drago ripartì in silenzio senza che un giornalista lo cercasse, tantomeno un fan, e solo un paio d’anni dopo, quando nel 1974 fu distribuito nei cinema italiani “L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente”, tutti s’accorsero che Bruce Lee era stato a Roma. E si rammaricarono di non averlo incontrato.

I più giovani, ma anche molti adulti, si emozionarono assistendo al suo combattimento dentro il Colosseo contro il campione americano di karate Chuck Norris, un tizio biondo e villoso mai veduto prima sugli schermi. Doppiamente si emozionarono perché intanto altri film con Bruce Lee erano arrivati ed erano diversi dalle pellicole seriali di kung fu, sfornate a getto continuo sul tipo di “Cinque dita di violenza”. Erano diversi grazie a lui, malgrado i critici li classificassero sempre fra i B movie: la sua capacità marziale, la sua recitazione, un certo taglio eroico trasmettevano l’inesplicabile carisma che penetrava il cuore delle platee più popolari in tutto il mondo.

Quando uscì in Italia “L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente”, tutti s’accorsero con rammarico che Bruce Lee era stato a Roma

Fu una malìa impetuosa come un’esplosione, e rapida come i calci di Bruce, quella che ne proiettò la fama al di là dei circuiti del sud-est asiatico in cui aveva sbaragliato ogni record ai botteghini, e che lo impose nel difficile mercato nordamericano, in Europa, in Africa e persino in Giappone, dove nessuno avrebbe puntato uno yen sulle standing ovation per un attore cinese.

Se la malìa fu rapida, però, la morte lo fu di più, più dei calci di quel ragazzo che non avrebbe mai assistito al compimento del suo sogno. Diventare una stella mondiale. Una fine fulminante lo aveva colto nel sonno a trentadue anni, in una caldissima sera di luglio del ’73 a Hong Kong, la città dove crebbe e di cui è tuttora il più emblematico figlio. Edema cerebrale causato dall’ipersensibilità a una compressa di analgesico, conclusero le analisi forensi. Un decesso “by misadventure”. Leggasi: per sfiga. Quasi nessuno credette che una banale pasticca di Equagesic potesse sopraffare un atleta formidabile, sicché il flusso delle ipotesi alternative, da quel giorno, non s’è mai interrotto. Né presso i fan né presso gli scienziati. L’ultimo studio, condotto da una folta équipe di nefrologi dell’Università di Madrid, è stato pubblicato a marzo scorso sul “Clinical Kidney Journal” e ipotizza una disfunzione renale (“the kidney’s inability to excrete excess water”) quale causa dell’edema. Un’ipotesi preceduta da altre più o meno plausibili tra cui una punizione delle triadi mafiose perché Bruce Lee non s’era piegato ai loro diktat, la vendetta di maestri gelosi, l’effetto di droghe oppure – neanche ultima – il compimento di una maledizione che colpiva i primogeniti della sua famiglia. Questa spiegazione più esoterica, o superstiziosa, fu rinverdita quando circa vent’anni dopo, il 31 marzo del ’93, Brandon, figlio maggiore di Bruce e attore come lui, rimase ucciso durante la lavorazione del film “Il Corvo” per un assurdo incidente sul set: la 44 Magnum con cui l’antagonista gli sparò non era stata controllata e portava in canna un proiettile vuoto, che partì quando fu esploso il colpo a salve.

Una spiegazione esoterica sulla sua morte a 32 anni: il compimento di una maledizione che colpiva i primogeniti della sua famiglia

Pochi giorni dopo, Brandon avrebbe dovuto partecipare alla cerimonia sulla Walk of Fame di Hollywood per celebrare il padre con l’apposizione di una “stella” sul marciapiede dei divi. Si tornò a parlare della maledizione di famiglia e di un fratello primogenito di Bruce morto in fasce. Persino chi non crede a questo genere di cose restò colpito – e ne resta tuttora – da una ulteriore nefasta premonizione. Nel film biografico su Bruce Lee, “Dragon” del regista Rob Cohen, completato appena prima della morte di Brandon e uscito nelle sale poco dopo, si raccontava l’incubo di quel demone di famiglia che tentava di strappare a Bruce il figlio maschio. Nel film non ci riesce. Nella realtà, che si consumò sulla finzione di un altro set, purtroppo ce la fece.

E’ uno fra i tanti misteri che accompagnano e alimentano il mito di Bruce Lee, al quale i genitori diedero da neonato il nomignolo femminile di Sai Fong (Piccola Fenice) proprio per ingannare il demone che aveva già ghermito loro un bambino. Coincidenze forse. Sicuramente fatti. Se la gloria è la testa della moneta, questa è la croce incisa sulla faccia opposta.

Quella gloria che postuma è così durevole si palesò giusto come un barlume nella vita di Bruce Lee. Aveva sognato di realizzarla in America e la conseguì senza vederla nel fatale anno ’73: giusto un mese dopo la sua morte, con un gala al Grauman’s Chinese Theatre di Los Angeles, fu proiettata la prima di “Enter the Dragon”, che consacrava il suo nome in occidente e che malgrado lo snobismo dei critici dell’epoca è oggi classificato tra i film d’azione più belli della storia. Era la prima volta che un grande produttore occidentale come la Warner Bros aveva investito su un protagonista cinese. Di più, era la prima volta che “I 3 dell’Operazione Drago”, questo il titolo con cui il film fu distribuito in Italia, erano rappresentanti di altrettante etnie che mai a Hollywood avevano potuto conseguire lo status di eroe principale: al fianco di Bruce figuravano the nigger Jim Kelly e John Saxon, all’anagrafe Carmine Orrico, figlio d’emigranti della provincia casertana (il quale per snobismo aveva persino esitato a entrare nel cast).

I “Tre dell’Operazione Drago”  erano rappresentanti di altrettante etnie che mai a Hollywood avevano potuto conseguire lo status di eroe

Cinquant’anni dopo, la fama del cinese miope e allegro che inavvertito gironzolava per Roma si staglia brillante nel firmamento della cultura popolare più di altri “cari agli dèi” come Elvis Presley, Marylin Monroe, Jim Morrison o Michael Jackson, più di qualsiasi star dello spettacolo perché il suo lascito non è solo emozionale ma include una filosofia di vita. Una fruibile ispirazione anche per chi nulla sa o vuole saperne di cinema e di arti marziali. Bruce Lee è assurto al rango di icona globale anche per la dimensione privata, comparabile forse a Muhammad Ali più che a qualsiasi altro divo, comunicando carisma da una generazione all’altra senza che una patina vintage lo rendesse più opaco. A fine secolo il Time Magazine incluse nella lista delle cento personalità più influenti del Novecento The Gladiator Bruce Lee, appellativo consacrato da quelle giornate romane del ’72, dallo scontro all’ultimo sangue con il “cattivo” Chuck Norris nello scenario più suggestivo per l’immaginario collettivo, il Colosseo, cui offrì lo spot pubblicitario (gratuito) più straordinario, visto da centinaia di milioni di persone sotto ogni latitudine e che continuerà a essere rivisto domani. Il fatto curioso è che, escluse certe inquadrature a distanza dei due antagonisti, il celeberrimo combattimento a mani nude non fu girato a Roma perché la troupe non ottenne il permesso. Un interno del Colosseo in cartone e compensato fu riprodotto al ritorno a Hong Kong, negli studi della Golden Harvest sulla penisola di Kowloon. Bruce Lee, che si provò in quella pellicola davanti e dietro la macchina da presa come sceneggiatore, regista e coreografo, impiegò quarantacinque ore per portare a termine le sequenze del duello con Norris (il quale, beata sconfitta, inaugurò allora una fortunatissima, longeva carriera di attore fino a diventare un topos, un meme dei social, addirittura un modo di dire per l’americano medio come per Elon Musk).

Ma il mito di Bruce Lee sopravvive, anzi tuttora prospera non solo per la sua abilità cinematografica né per l’arte di combattimento che condensò in un sistema anticonvenzionale chiamato Jeet Kune Do (“la via per intercettare i pugni”). Piuttosto il mito prospera perché non furono soltanto calci e pugni a far di lui ciò che grazie ai calci e ai pugni diventò. Furono quelle tecniche l’espressione di una mente brillante, intrisa dei 2.500 libri che aveva accumulato, leggendoli, negli esigui anni di vita fluiti tra gli intensi allenamenti e l’ambizione di diventare una star hollywoodiana. Si ripromise di essere pagato quanto i suoi allievi Steve McQueen e James Coburn, ai quali impartiva lezioni private nel periodo passato in California mentre cercava di emergere dall’oscurità dell’emigrante cinese anni Sessanta, su cui ancora pesava l’esclusione razziale. Scendendo dalla nave che lo aveva portato in America contava nelle tasche soltanto cento dollari, arrotondati con le lezioni di cha-cha-cha che gli avevano chiesto di tenere durante la traversata perché aveva vinto un campionato di ballo prima di partire da Hong Kong.

Bruce Lee è assurto al rango di icona globale anche per la dimensione privata, comparabile a Muhammad Ali più che a qualsiasi altro divo

A farne un mito fu il suo pensiero, proprio così. Alle massime compilate da Li Siu Long (ossia “Piccolo Drago”, suo soprannome cantonese da quando ottenne i ruoli di attore bambino nel cinema di Hong Kong) si sono rifatti grandi pugili come Sugar Ray Robinson, campioni delle Mixed martial arts come Kenny Florian ma anche, per esempio, la ciclista e pattinatrice canadese Clara Hughes o il gigante del basket Kareem Abdul-Jabbar, che Lee volle sul set dopo essergli stato maestro. Senza il Piccolo Drago, Quentin Tarantino forse non avrebbe scritto la saga di “Kill Bill” né è riuscito a fare a meno di includerlo nel più recente “Once Upon a Time in Hollywood”. Guardando a lui, i giovani di Hong Kong hanno animato le sfortunate proteste di piazza tra il 2019 e il 2020, prima che la legge sulla sicurezza nazionale imposta da Pechino reprimesse ogni aspirazione democratica nell’ex colonia britannica. I manifestanti avevano fatto proprio il motto più famoso di Bruce Lee, il “Be Water” che vale per le arti marziali come per le tattiche di piazza o la politica. Per chiunque e dovunque i princìpi taoisti che esprime ne suggeriscano l’applicazione: “Svuota la tua mente, sii senza limiti, senza forma, come l’acqua. Se metti l’acqua in una tazza, lei diventa la tazza. Se la metti in una bottiglia, lei diventa la bottiglia. Se la metti in una teiera, lei diventa la teiera. L’acqua può fluire, o può distruggere. Sii acqua, amico mio”.

Cinquant’anni fa girò al Colosseo “The Way of the Dragon”. Dallo scontro all’ultimo sangue con Chuck Norris si guadagnò l’appellativo di gladiatore

S’intitola così, “Be Water, My Friend”, la rielaborazione degli insegnamenti di Bruce Lee confezionata dalla figlia Shannon. Pubblicata negli Stati Uniti proprio nel 2020 delle rivolte hongkonghesi, approderà il mese prossimo nelle librerie italiane per Giunti Editore. Non è un volume new age né un manuale di self-help, ma la trasposizione dei princìpi con cui il Piccolo Drago suggeriva di diventare “la versione migliore possibile di voi stessi”, ciascuno perseguendo la propria aspirazione senza restare vincolato a schemi o pregiudizi: “Nessun metodo come metodo, nessun limite come limite”. Chi ha qualche dimestichezza con le filosofie orientali, soprattutto con i testi di Jiddu Krishnamurti, ne trova risonanza fra i pensieri di Bruce Lee, ma lui, uomo della generazione che leggeva “La via dello Zen” di Alan Watts e “Siddharta” di Hermann Hesse, seppe integrare la cultura asiatica con la mentalità occidentale. Incline all’azione, provò a tenere assieme il tao e il dollaro, il pragmatismo professionale e l’introspezione personale: “E’ stato detto che il talento si crea le occasioni da sé. Talvolta tuttavia il desiderio, il desiderio intenso sembra creare non solo le occasioni ma il talento stesso”.

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Scrisse su un foglietto ritrovato postumo che sarebbe stato “la superstar orientale più pagata degli Stati Uniti” grazie alle “interpretazioni più emozionanti e di miglior qualità che un attore possa dare”. Che avrebbe goduto di fama mondiale e che alla fine del 1980 avrebbe posseduto dieci milioni di dollari. I soldi li agognava ma erano uno strumento: perché, aggiunse, “vivrò come voglio e raggiungerò l’armonia e la felicità interiori”. La morte inaspettata gli sottrasse il frutto dell’intento. Eppure lui dimostrò quale risultato può scaturire dall’innesto di Laozi su Eraclito. Quale apporto può offrire alla psicologia occidentale il Libro dei Mutamenti “Yijing” (come sapevano Jung, Ernst Bernhard e Fellini). Quali possibilità si schiudono per chi ha studiato l’antico kung fu con un maestro tradizionale, ma ha provato a coniugarlo con sistemi così diversi come la boxe, la lotta greco-romana e la scherma occidentale. Quale gioia può dare il matrimonio con un’americana di radici nordeuropee, da cui nascono due figli di cui Brandon, il maggiore, era l’unico bimbo cinese della West Coast con gli occhi chiari e i capelli biondi. Una singolare sorte o karma fece “per caso” nascere Bruce a San Francisco, gli fece vivere i primi diciott’anni a Hong Kong, lo fece tornare in America e studiare filosofia, quindi ripartire per l’Asia verso un successo che in occidente si confermerà. Però lui muore appena riesce tutto. In queste poche righe di sommario, terminanti con irrisolto punto di domanda, si potrebbe sunteggiare la vita di Lee tra le scene salienti della biografia.

Una mente brillante, intrisa dei 2.500 libri che aveva letto negli esigui anni di vita tra gli intensi allenamenti e l’ambizione di diventare una star

Non sarebbe bugia, quanto una verità smezzata. La metà che resta deve raccontare di un uomo che si trovò su un ponte, assai più lungo del Golden Gate, sospeso tra l’oriente e l’occidente. Lottò per unire le due sponde anche quando negli States lo giudicavano “troppo cinese” per affidargli il leading role in una serie tv (gli fu preferito David Carradine, che paradossalmente doveva fingersi cinese). E lottò anche quando i maestri della Chinatown lo biasimarono perché insegnava kung fu agli occidentali. Per non dire poi che finché visse la sua stessa esistenza restò ignota nella Cina Popolare, ancora soffocata dalla Rivoluzione culturale che aveva pure travolto lo studio delle arti marziali. Conseguito il successo, tuttavia, il ponte che Bruce aveva percorso dalla nascita davvero congiunse le due sponde del Pacifico. Prima del Piccolo Drago, nessun occidentale avrebbe sognato di essere come un “cinesino”: dopo di lui, a milioni avrebbero voluto somigliargli. Dal Canada all’Italia alla Bosnia-Erzegovina (gli fu eretta a Mostar una statua prima che a Hong Kong). Lui aveva riscattato il corpo dei cinesi con la prodezza fisica, anche se dietro l’apparenza di supereroe si celava la fragilità che la morte prematura avrebbe rivelato.

S’intitola “Be Water, My Friend” la rielaborazione dei suoi insegnamenti confezionata dalla figlia Shannon. Approderà il mese prossimo in Italia

Finzione e realtà si mescolano spesso: nel film distribuito in Italia col titolo “Dalla Cina con furore”, Bruce Lee riproponeva la storia vera del maestro Huo Yuanjia, il quale ai primi del Novecento aveva cercato di rafforzare con l’educazione fisica diffusa una popolazione prostrata dall’oppio, semicolonizzata dalle potenze occidentali e dal Giappone, mentre nei parchi delle “concessioni straniere” di Shanghai era vietato l’ingresso “ai cani e ai cinesi”. L’eroe del film, che sacrificherà la vita per l’onore nazionale, costringe in una scena emblematica i lottatori giapponesi a ingoiare un cartiglio offensivo che bollava i cinesi come “malati dell’Asia”. La pellicola precorre il risorto nazionalismo di cui Pechino avrebbe fatto mostra muscolare negli anni successivi fino a oggi. Ma l’orgoglio etnico del Piccolo Drago era maturato tra l’Hong Kong coloniale e l’emigrazione californiana, da cui si guardava al Paese di Mezzo come a un ideale di antica civiltà proiettato verso un futuro di dialogo con l’occidente, non come al sogno egemonico di un regime totalitario da cui a milioni avevano preferito scappare.

Quel film uscì nelle sale di Hong Kong a marzo del ’72, un mese dopo la visita del presidente americano Richard Nixon in Cina che si concluse con il “Comunicato di Shanghai”, in cui gli Stati Uniti riconoscevano l’appartenenza di Taiwan alla Repubblica popolare cinese ma riaffermavano una soluzione pacifica per la sua integrazione.

Cinquant’anni dopo un’altra visita americana ma a Taipei, della speaker della Camera Nancy Pelosi, ha ridiscusso quegli ambigui princìpi sollevando una tensione inversamente proporzionale alla distensione del ’72. Con enormi differenze che riguardano non solo i mutamenti globali e la tanto maggiore potenza di Pechino, ma il suo stesso schieramento. All’epoca di Nixon il primo antagonista della Cina era l’Unione Sovietica. Oggi la Russia è il suo principale alleato.

Finché visse, la sua stessa esistenza restò ignota nella Cina soffocata dalla Rivoluzione culturale che aveva travolto lo studio delle arti marziali

Se il tempo fosse un gambero, ne avrebbe fatta di strada con successo nell’ultimo biennio. A febbraio 2020, nel corso dell’ondata iniziale di coronavirus in Cina, il Wall Street Journal titolò: “China Is the Real Sick Man of Asia”, riproponendo le parole di quell’iscrizione che Bruce Lee aveva fatto mangiare ai giapponesi. A Pechino montarono su tutte le furie e i tre giornalisti della testata statunitense furono espulsi dal paese, ma almeno in questo caso non si trattava di un attacco alla libertà di stampa, quanto di una reazione inevitabile per un antico nervo scoperto. Chi titolò “Sick Man of Asia” letteralmente traduceva il “Dongya Bingfu” con cui venne bollato l’Impero dell’ultima dinastia Qing nella fase di avanzato disfacimento. Al Wall Street Journal conoscevano la storia cinese o forse avevano soltanto rammentato il film. In ogni caso dovevano immaginare l’efficacia di quella puntura.

Pare adesso svanito finanche l’ottimistico ricordo della diplomazia del ping-pong, con cui nel 1971 si cominciò a scalfire la Cortina di Bambù mandando una squadra americana a giocare in Cina. Nell’annata difficile del quasi post-Covid, della guerra in Ucraina e dei missili sui cieli di Taiwan resta per souvenir solo la diplomazia del nunchaku, il bastone a due sezioni unite dalla catenella o da una corda che Bruce Lee elesse ad arma preferita roteandola in spettacolari scene di combattimento (nel Regno Unito tutte censurate). Due nunchaku per volta usò nel film girato a Roma, mentre si esibì in una sfida nunchaku contro nunchaku con il suo allievo Dan Inosanto nell’incompiuto “Game of Death”, in cui vestiva la tuta gialla a strisce nere ripresa da Tarantino per Uma Thurman di “Kill Bill”. Provarono a emularlo i teppisti degli anni Settanta, ma occorreva troppa pratica per usare quell’attrezzo senza procurarsi lividi. Riuscì solo, e non è cosa da teppisti, chi perseverò in palestra sulla spinta iniziale del Piccolo Drago e poi non poté più restare indifferente alla bellezza della civiltà cinese. Al di là di calci e pugni. Partendo dalle arti marziali, molti percorsero il ponte su cui aveva camminato Lee dimostrando con la sua persona il reciproco vantaggio dell’incontro fra culture.

Bruce Lee resterà ancora quando Xi Jinping sarà passato, e qualcuno s’ispirerà al “Be Water”. Il pensiero non è soggetto a piani quinquennali

Forse Hong Kong, dove hanno anche lasciato demolire l’ultima casa del Piccolo Drago nel quartiere elegante di Kowloon Tong, non sarà mai più libera come prima né più il luogo di conciliazione tra oriente e occidente. Però si può scommettere che Bruce Lee resterà ancora quando Xi Jinping sarà passato e che qualcuno s’ispirerà al “Be Water” fin negli angoli remoti del mondo e della Cina. Il pensiero non è soggetto a piani quinquennali. Neanche i sogni.

Quando il Time Magazine selezionò il suo nome fra i cento più influenti del Novecento, ricordò come fosse assurto al mito “un ragazzo di 18 anni basso, secco e miope che da Hong Kong si mise in viaggio per l’America”. Non solo: aveva una gamba un po’ più corta dell’altra, soffriva di monorchidismo e a scuola non era un granché. Osserva Shannon nel libro che il padre riusciva a stento a cambiare una lampadina o a cucinare un uovo al tegamino e non se la sarebbe cavata a montare un mobile dell’Ikea. Eppure. Il carisma del mito non vuol dire perfezione, ma “il desiderio intenso che crea il talento stesso”. Chissà quanti possibili Draghi sfioriamo per strada che non lo diventeranno, perché ci credono poco o non desiderano abbastanza.

Nel frattempo al Colosseo, da cinquant’anni della sua millenaria storia, due gladiatori continuano a combattere tutti i giorni con leale crudeltà, perché ogni giorno aumentano le visualizzazioni su YouTube di quel duello Lee-Norris rendendolo borgesiano e interminabile con la milionesima volta uguale alla prima, sicché il Drago, malgrado le apparenze, da Roma non se n’è mai andato. Anzi ci resterà dopo che ne saremo andati via noi.

E questa è l’incantevole durata dei miti.

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