I manifestanti di Hong Kong (Foto LaPresse)

La disobbedienza civile per la democrazia dei ragazzi di Hong Kong che si ispira a Bruce Lee

Giulia Pompili

Le proteste “senza forma” e irrazionali ci dicono quanto sia difficile combattere per un ideale democratico

Roma. Un milione di persone in piazza si trasforma presto in un dettaglio insignificante quando iniziano a circolare le immagini di una dozzina di ragazzi dentro al Parlamento di Hong Kong armati di vernice spray e di una bandiera nostalgica, di epoca coloniale inglese. Funziona così da sempre, un po’ ovunque: le proteste di piazza possono essere imponenti e altrettanto pacifiche, i tafferugli con la polizia incidentali, ma quando poi la miccia della violenza viene accesa, l’occhio umano non vede che quello: la degenerazione, la prepotenza, e giustifica la reazione. Ma le cose, quasi sempre, sono ben più complesse. Ieri si celebrava l’anniversario del 1° luglio 1997, quando Hong Kong venne consegnata dalla Gran Bretagna alla Cina con la garanzia di “un paese, due sistemi”, un quadro giuridico che lasciasse all’ex colonia inglese ampi margini di autonomia democratica. Una garanzia a tempo: l’accordo dura fino al 2047, nessuno sa cosa accadrà dopo, ma tutti sanno quello che sta accadendo adesso. L’autonomia di Hong Kong è periodicamente minata dal tentativo del governo centrale di Pechino di controllare il desiderio di democrazia, ma soprattutto quello d’indipendenza. Hong Kong ha già avuto una lezione.

 

La repressione e la persecuzione legale dei leader che hanno guidato le proteste del 2014 hanno portato i nuovi, giovani manifestanti a organizzarsi in modo diverso. Si manifesta non per un concetto fumoso come la democrazia, o troppo provocatorio come l’indipendenza, ma per un motivo specifico: il ritiro definitivo dell’emendamento alla legge sull’estradizione, quello che il capo del governo locale di Hong Kong, Carrie Lam, ha soltanto “sospeso” il 15 giugno scorso dopo le manifestazioni. Si manifesta ma senza dare pubblicità ai leader, semmai ce ne fossero, di questo movimento: nessuno deve essere ritenuto il volto “responsabile”. I manifestanti hanno fatto proprio l’insegnamento del celebre attore di Hong Kong, Bruce Lee, “siate come l’acqua”, e hanno applicato “tattiche di guerriglia urbana imprevedibili” per la polizia, spiegava oggi il South China Morning Post, in una protesta “senza forma”, apparentemente irrazionale. Anche l’organizzazione (via social) sembra senza testa, ma così è più facile cadere nelle trappole della rabbia.

 

Lo ha spiegato su Twitter, oggi, Joshua Wong, uno dei volti più noti delle proteste di Hong Kong del 2014, un giovanissimo attivista che ha già parecchi mesi di galera alle spalle. Ha scritto Wong: “Il 9 giugno, un milione di persone sono scese in piazza pacificamente. Ma prima ancora che la sera arrivasse, Carrie Lam ha detto che avrebbe accelerato l’approvazione della legge. È il motivo per cui la mattina del 12 giugno, quando era previsto il dibattito parlamentare, abbiamo preparato la nostra ultima battaglia”, ha scritto Wong. “Poi il miracolo si è compiuto. I manifestanti sono riusciti a bloccare l’edificio. I media internazionali hanno pubblicato le prove di un eccessivo uso della forza da parte della polizia. Ci sono stati molti infortuni, ma i parlamentari non sono riusciti a riunirsi”. Ma la battaglia era vinta? No, spiega Wong: “Lam finalmente si è scusata due giorni dopo, ma per cosa? Per non aver ‘comunicato correttamente’ ai cittadini di Hong Kong il disegno di legge sull’estradizione. I commentatori di tutto il mondo hanno creduto che a quel punto il movimento fosse finito, perché il disegno di legge era stato ‘sospeso’ e Lam aveva chiesto scusa. Ma in realtà nessuna delle nostre richieste è stata soddisfatta. Lam ha rifiutato il dialogo con i parlamentari dell’opposizione e ha continuato a lodare il lavoro della polizia”. E così si è arrivati agli scontri di ieri.

 

Una parte del gruppo che stava manifestando si è staccata, a un certo punto, e ha tentato l’irruzione all’interno del Parlamento. Tutti giovanissimi, probabilmente molto consapevoli del fatto che da qui ai prossimi vent’anni la loro vita potrebbe cambiare. Circolano su Twitter le immagini di parlamentari pro-democrazia che cercano di fermare, fisicamente, i ragazzi pronti a fare irruzione. Ma i manifestanti erano ormai entrati nella sala del Parlamento, per occuparlo in un gesto estremo di disobbedienza civile – e vandalizzandolo, anche, ma nei simboli del potere di Pechino, come lo stemma di Hong Kong e solo nella parte che rimanda alla Cina continentale, lasciando i soldi per le lattine bevute e mettendo in sicurezza gli artefatti antichi. Dopo l’ultimatum della polizia, altri hanno tentato di portare via di peso gli occupanti, perché “nessuno deve rimanere indietro”.

 

Sono immagini difficili da guardare e altrettanto da interpretare, ma che ci parlano di quanto sia difficile combattere per un ideale democratico, quante contraddizioni porti con sé, e quanto sia facile cadere nell’errore. “Cercano la democrazia perché è la cosa migliore del mondo. Sfortunatamente qualche governo non la vuole”, ha detto ieri dalla Casa Bianca Donald Trump, scatenando le reazioni di Pechino, che ha chiesto “nessuna ingerenza”. E mentre nelle scorse settimane era già difficile trovare notizie sui giornali cinesi delle pacifiche proteste di Hong Kong, oggi era un diluvio di commenti ed editoriali sulla “violenza distruttiva” dei manifestanti della città. “Marchiati di arroganza hanno sfidato lo stato di diritto di Hong Kong deve essere fortemente condannato. La città non dovrebbe essere trasformata in un paradiso per i violenti”, scrive oggi in un editoriale il Global Times. Pechino adesso ha un buon motivo per continuare a restringere sempre di più l’autonomia di Hong Kong.

Di più su questi argomenti:
  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.