Foto LaPresse

Quanta chiesa c'è nella piazza di Hong Kong

Giulia Pompili

I cristiani sono l’anima delle proteste contro il monolite cinese. Ma ci sono guai in vista per il Vaticano (e per l'accordo con Pechino)

Roma. Durante le manifestazioni degli ultimi giorni a Hong Kong era impossibile non notare una scritta, che tornava di frequente sulle magliette nere dei ragazzi e sui cartelli: “Sing Hallelujah to the Lord”. Ma che c’entra il Signore con l’emendamento alla legge sull’estradizione – poi sospeso a tempo indeterminato dal governo locale – che rischiava di erodere ancora di più quel che resta dell’indipendenza dalla Cina dell’ex colonia inglese, dove soltanto il dieci per cento della popolazione si dichiara cristiana? C’entra, perché da una parte i milioni di ragazzi che si sono mobilitati per difendere il loro diritto a essere processati in un sistema penale democratico hanno usato un vecchio trucco: qui le uniche manifestazioni che si possono fare senza chiedere il permesso alle autorità sono quelle religiose. E spesso, durante le proteste, le canzoni cristiane sono state intonate per allentare la tensione con la polizia, insomma per dare un’immagine pacifica dei manifestanti. E’ così che “Sing Hallelujah to the Lord”, scritta nel 1974 da Linda Stassen, questa volta è diventata una specie di inno della protesta contro il governo di Hong Kong e dell’indipendenza, almeno quella giudiziaria. Ma non c’è stata alcuna appropriazione religiosa da parte dei manifestanti. Tutto è iniziato con un vescovo cattolico nato nell’ex colonia inglese, Joseph Ha – uno dei tre vescovi ausiliari di Hong Kong, nominato da Papa Francesco nel 2014 – che sin dalla prima marcia, il 16 giugno scorso, ha guidato una veglia di preghiera fuori dall’edificio del Consiglio legislativo. E l’altro ieri in un inusuale comunicato congiunto il cardinale John Tong Hon, amministratore apostolico della diocesi, e il reverendo Eric So Shing-yit, presidente del Consiglio cristiano (un organo che raccoglie ventuno chiese tra le quali quella protestante e quella metodista), si sono uniti ufficialmente alla protesta. “Il governo ha chiarito che la legge sull’estradizione è già stata sospesa, ma ora chiediamo che faccia un’esplicita dichiarazione in cui dice che l’emendamento è stato ritirato”. Anche i leader della chiesa anglicana hanno scritto che “la voce dei cittadini non è stata ascoltata, e il governo ha ignorato le preoccupazioni e i timori della gente”.   

    

   

Non tutti sono d’accordo sull’esplicito appoggio ai manifestanti di Hong Kong. Il fatto è che per la chiesa cattolica le proteste aprono anche una difficile partita politica con il governo di Pechino, che più di una volta ha esortato “paesi e entità esterne alla Cina a non intromettersi negli affari interni del paese”. Nel settembre del 2018 la Santa Sede ha firmato un delicatissimo accordo per riavvicinare, finalmente, Roma al governo cinese – un accordo che per ora riguarda solo la nomina dei vescovi e non l’allacciamento di relazioni diplomatiche. Però, come spesso ha raccontato Matteo Matzuzzi su queste colonne, per ristabilire un’unica chiesa, cioè non più divisa tra i vescovi nominati dal governo di Pechino e quelli del Vaticano, la diplomazia è tutto. E’ per questo che la grana di Hong Kong oggi arriva fino ai corridoi della Santa Sede.

   

Il cardinale John Tong Hon era vescovo di Hong Kong, è andato in pensione nel 2017 e quando il suo successore Michael Yeung Ming-cheung è morto è stato richiamato come amministratore apostolico. Ora, la prossima grande decisione che dovrà prendere il Vaticano è appunto quella della nomina del nuovo vescovo di Hong Kong. John Tong Hon è un moderato aperturista, vuole il dialogo e la coesistenza tra il mondo cattolico e la Cina. Il suo predecessore, il vescovo emerito di Hong Kong Joseph Zen, era il consigliere di Benedetto XVI per la Cina, un falco anticinese, che ha criticato duramente l’apertura del Vaticano a Pechino (e che in questi giorni ha mandato messaggi di solidarietà ai manifestanti). La scelta del nuovo vescovo per la diplomazia cattolica è complicata, perché è anche un messaggio alla Cina. 

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.