Un'immagine delle proteste contro la Cina a Hong Kong (foto LaPresse)

Con la legge sull'estradizione, uno scalo a Hong Kong può costarci carissimo

Giulia Pompili

Perché le proteste contro la Cina ci riguardano

Roma. Sin dagli anni Novanta, cioè dal passaggio dall’amministrazione inglese a quella cinese, l’accordo “un paese, due sistemi” di Hong Kong aveva garantito non solo la libertà di stampa e di espressione, ma anche una certa libertà a chi volesse fare affari con la Cina senza essere esposto direttamente alle leggi cinesi. E infatti l’emendamento alla norma sull’estradizione in discussione nel Parlamento di Hong Kong, che ha portato alle proteste di questi giorni, in realtà non è criticato soltanto dai cittadini, che hanno visto la loro indipendenza lentamente erosa dal governo centrale di Pechino.

 

“Nessuna grande azienda osa parlare apertamente per paura di urtare il governo cinese”, ha scritto ieri Alexandra Stevenson sul New York Times, “Ma dietro le quinte, tutti sono alle prese con questioni spinose perché questa legge potrebbe mettere in pericolo i dirigenti stranieri, e potrebbe indebolire il sistema legale della città”. E qualunque azienda straniera preferisce eleggere a tribunale competente per le controversie il foro di Hong Kong rispetto ai tribunali cinesi, “controllati dal Partito comunista”. Se da una parte Pechino e Carrie Lam, il capo dell’esecutivo dell’ex colonia, per giustificare la modifica alla legge sull’estradizione hanno parlato spesso di Hong Kong come di un “rifugio” per criminali e assassini, in realtà questo equilibrio aveva trasformato la città in un hub finanziario, una terra di mezzo fondamentale soprattutto dopo l’escalation della guerra commerciale tra America e Cina.

 

Mercoledì, dopo la manifestazione finita in scontri, la Borsa di Hong Kong ha chiuso a -1,7 per cento, tutto sommato non un disastro, ma gli investitori iniziano a essere preoccupati sul lungo termine, soprattutto dopo le vaghe parole del presidente americano Donald Trump, che ha detto: “Capisco le ragioni di chi protesta, spero che i manifestanti risolvano i problemi con la Cina”. Tara Joseph, presidente della Camera di commercio americana di Hong Kong, ha detto al Times: “Questo disegno di legge è preoccupante perché chi lavora negli affari inizierà a considerare l’esistenza di una linea divisoria tra politica e affari più sfumata, in una città che invece si considera una capitale del business, e che mette al primo posto gli affari”.

 

Il pericolo è che da Hong Kong le grandi banche di affari e le aziende si spostino a Singapore. Jerome Cohen, docente di Legge alla New York University e uno dei massimi esperti di diritto cinese, ha scritto due giorni fa sul suo blog un lungo e accorato articolo sui motivi per cui le proteste di Hong Kong di questi giorni dovrebbero essere condivise da chiunque abbia rispetto dello stato di diritto. “Non è in gioco solo il destino del ‘popolo di Hong Kong’. Chiunque passi per l’aeroporto di Hong Kong potrebbe essere trattenuto e trasferito in Cina (basti pensare al caso estradizione di Huawei a Vancouver). Persino le persone che sono state estradate da una terza giurisdizione a Hong Kong potrebbero essere soggette a una ri-estradizione in Cina, a meno che nel trattato di estradizione tra Hong Kong e la terza giurisdizione non venga presa alcuna disposizione per impedirlo!”, scrive Cohen.

 

Il pericolo sta nella differenza del sistema giuridico e penale dei paesi democratici – compresa Hong Kong – e quello cinese: “Il presidente Xi Jinping ha espresso più volte la teorica aspirazione a promuovere un sistema penale che raggiunga la giustizia in ogni caso”, spiega Cohen, e “non manca mai di ricordare al pubblico che i tribunali sono in tutto e per tutto sotto l’assoluto controllo politico del Partito comunista”. Cohen fa qualche esempio delle storture della giustizia cinese, come le detenzioni senza processo (una vita in carcere in attesa di giudizio), l’uso delle torture fisiche e mentali per estorcere confessioni, il fatto che spesso ad alcuni sospettati non viene permesso di vedere consulenti legali o avvocati. E poi ci sono “i detenuti accusati con prove false. Pensate ad Ai Weiwei, un famoso artista dissidente apparentemente incarcerato per un problema con le tasse. Quanto sarebbe facile per Pechino trovare accuse che soddisfino i criteri per l’estradizione da Hong Kong?”.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.