I manifestanti pro-democrazia si riuniscono contro la brutalità della polizia e il controverso disegno di legge di estradizione all'aeroporto internazionale di Hong Kong il 12 agosto 2019 (LaPresse)

Così il governo cinese sta costruendo l'intervento armato a Hong Kong

Giulia Pompili

Pechino cambia strategia contro chi manifesta per la democrazia. In dieci settimane passa da "disordini" a "terrorismo". Ora la polizia può punire "senza pietà", e la narrativa sui "disagi all'aeroporto" e "i problemi del business" diventa propaganda. Il rischio che si risolva tutto nel sangue

Roma. Ieri nella terza conferenza stampa dall’inizio delle proteste a Hong Kong, dieci settimane fa, il portavoce dell’ufficio per gli affari di Macao e Hong Kong del governo di Pechino Yang Guang ha alzato ancora i toni: “Gli estremisti stanno usando tattiche estremamente pericolose per attaccare la polizia. I primi segnali di atti di terrorismo cominciano a venire fuori”. Yang ha poi aggiunto che certe violenze “vanno punite senza clemenza, senza pietà”. La strategia del governo centrale di Pechino è cambiata molto negli ultimi giorni, di pari passo con l’intensificarsi delle manifestazioni e degli scontri. Le proteste, iniziate per fermare la discussione dell’emendamento che avrebbe esteso la legge sull’estradizione da Hong Kong anche alla Cina continentale, si sono trasformate in un attacco diretto al governo locale di Carrie Lam e alla pressione che ormai da anni esercita il governo centrale di Pechino sull’indipendenza dell’ex colonia inglese, violando le regole del “un paese, due sistemi”. Ieri, per il quarto giorno di seguito, migliaia di manifestanti hanno occupato l’aeroporto internazionale di Hong Kong, ma poi dal terminal degli arrivi, dove mostravano cartelli e cantavano slogan contro il governo, alcuni sono passati al sabotaggio del terminal delle partenze. Il caos ha costretto le autorità, intorno alle 4 del pomeriggio, a cancellare il resto dei voli fino alla mattina successiva ma anche a organizzare un possibile sgombero, che nel momento in cui questo giornale va in stampa non è stato ancora eseguito. La possibilità di un intervento delle Forze dell’ordine, in serata, ha portato molti dei manifestanti ad allontanarsi.

  

Nel 2014 gli arresti e gli scontri con la polizia nel giro di due mesi e mezzo avevano sedato le proteste, ma questa volta sembra che i manifestanti di Hong Kong non abbiano nessuna intenzione di fermarsi. Il governo cinese lo ha capito adesso e ha cambiato metodo e linguaggio: invece di minimizzare lo scontro, come ha fatto nelle prime settimane quando parlava di semplici “disordini”, da qualche giorno ha iniziato una campagna propagandistica contro i manifestanti e contro chi, secondo la versione di Pechino, li starebbe sostenendo (America in primis). Per la prima volta ieri è stata pronunciata la parola “terrorismo”, un punto di svolta perché secondo la legge a questo punto sarebbe giustificabile l’intervento della Polizia militare cinese. Sempre ieri sul Global Times e sul Quotidiano del popolo sono state diffuse le immagini delle Forze armate della Cina continentale impegnate in esercitazioni militari sul confine tra Shenzhen e Hong Kong.

  

Sono tutti messaggi neanche troppo velati ai manifestanti dell’ex colonia inglese, che nel frattempo hanno messo insieme una macchina perfetta di comunicazione (attraverso efficientissimi canali Telegram) e iniziano a indirizzare le proteste là dove il loro messaggio può essere più internazionalizzato: l’aeroporto, per esempio. Gli scontri dell’ultimo fine settimana hanno fatto parecchi feriti, e la polizia di Hong Kong in assetto antisommossa ha ulteriormente aumentato la violenza, anche infiltrandosi tra i manifestanti. Sono stati usati i lacrimogeni anche in ambienti chiusi come le stazioni della metropolitana, una ragazza ha perso un occhio dopo essere stata colpita a distanza ravvicinata da un proiettile a pallini sparato dalla polizia; i social network sono pieni di video di arresti e bastonate e sangue, anche di giornalisti.

  

Pechino sta usando i disagi creati ai passeggeri e quelli al mondo del business per smontare la rete di sostenitori e simpatizzanti dei manifestanti. Non funziona granché: ieri perfino alcuni dipendenti di un ospedale di Chai Wan si sono fatti fotografare con il cartello: “La polizia di Hong Kong vuole ammazzare i cittadini di Hong Kong”. Ma se Pechino non riesce a convincerli con le buone, li silenzia: venerdì il governo ha ordinato alla compagnia Cathay Pacific Airways, simbolo dell’ascesa economica di Hong Kong, di lasciare a terra tutto il personale che sostiene le proteste – tanto per dare un’idea di quanto il governo di Pechino sia influente sulle compagnie private. Peter Woo è il primo milionario di Hong Kong a essere stato “reclutato” contro le proteste che “rovinano il business”, ha scritto in una dichiarazione diffusa ieri. Anche le ambasciate cinesi in Europa ora danno la loro versione dei fatti di Hong Kong, e forse si preparano al peggio, che potrebbe arrivare presto.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.